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Ugo Volli
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Musei vivi 08/04/2016
Musei vivi
Diario di viaggio, di Ugo Volli

A destra: una prospettiva aerea di Yad Vashem, il Memoriale della Shoah a Gerusalemme

Cari amici,

anche per chi è abituato a venire in Israele per conto suo, per lavoro o per visitare parenti, fare un viaggio di gruppo può essere molto utile. Non solo perché si trova certamente anche in luoghi che non ha avuto occasione di visitare e può imparare molte cose dalla guida (nel nostro caso la bravissima e informatissima Angela Polacco), e perché, presentandosi come una sorta di delegazione può incontrare persone interessanti che non avrebbe personalmente occasione di sentire: vi ho riferito nei giorni scorsi le impressioni che ne ho tratto. Ma anche perché seguire i passi di un turismo intelligente lo porta a riflettere sulla società israeliana da punti di vista nuovi.

Per esempio, i musei. Viaggiando per conto mio, non mi ero mai reso conto di quanti musei vi sono in Israele e in che modo particolare sono spesso organizzati. Anche per un italiano, abituato a vivere in mezzo a una parte cospicua del patrimonio culturale dell’umanità, l’abbondanza dei musei desta sorpresa. Non c’è università, né comunità locale, né istituzione, né luogo di residenza di un personaggio significativo che non abbia il suo museo, piccolo o grande. A fianco dei grandi complessi come il Museo di Gerusalemme e quello d’arte di Tel Aviv, il museo della diaspora e naturalmente Yad Vashem, vi è una rete di centinaia di visite minori per dimensioni ma spesso interessantissime, che si focalizzano su ritrovamenti archeologici, personaggi importanti, formazioni militari, argomenti scientifici, luoghi storici, esperienze comunitarie, ricordi collettivi.

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All'interno del museo della disapora, a Tel Aviv

Tutti questi musei non sono mai semplici esposizioni di collezioni, come per lo più accade in Italia. Hanno sempre una dimensione multimediale, sono arricchiti di filmati, talvolta sono sceneggiati immergendo il pubblico nell’esperienza che vogliono ricostruire, talvolta sceneggiati in maniera anche più indiretta. Il Museo Herzl sul monte all’estremità occidentale di Gerusalemme, dov’è onorata la sua sepoltura, per esempio, espone solo alcuni oggetti originali del fondatore del sionismo, ma ripercorre la sua vita raccontando con un certo numero di filmati collocati in ambienti ricostruiti la vicenda immaginaria di un attore incaricato di interpretare il ruolo dello stesso Herzl e dei suoi tentativi di penetrare la sua personalità e le sue emozioni: un modo per giocare con la stessa curiosità del visitatore. Al centro del museo del kibbutz Lohamei Hagetatot, fondato da superstiti della Shoà e dedicato al loro ricordo, vi è un grande plastico piuttosto tradizionale ma assai efficace sul piano didattico del campo di Treblinka; in un altro salone vi è una straordinaria installazione: un lato intero è coperto da uno schermo dove numerosissime lettere ebraiche e latine bianche sul fondo nero salgono dal basso, come bollicine in una bevanda gasata, a tratti si fermano per formare una combinazione che è il nome di una comunità ebraica distrutta dal nazismo e poi evaporano verso l’alto. Sul lato opposto vi è una nera muraglia lucida che però è interattiva; premendo su pulsanti virtuali parte della parete diventa trasparente, rivela i poveri oggetti delle vittime e fa apparire delle scritte che ne spiegano le vicissitudini.

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La ricostruzione del campo di sterminio di Treblinka presso il museo del kibbutz Lohamei Hagetaot

Insomma, usando tecnologie spesso molto innovative questi musei riescono benissimo a sviluppare tre aspetti in qualche tensione fra loro: il coinvolgimento anche emozionale dello spettatore, l’estetica dell’esposizione che spesso è affidata ad artisti veri e propri e soprattutto la dimensione didattica, il comandamento di preservare la memoria e diffondere il sapere. Questa è anche la caratteristica di Yad Vashem, il museo della Shoà che, pur grandissimo, espone solo una piccola parte dei reperti e dei documenti che conserva, ma lo fa con una capacità di coinvolgimento e una efficacia didattica straordinaria. Spesso questi musei hanno forme che in qualche modo incorporano l’emozione che devono dare, sono fatti di materiali, hanno forma, colori, strutture architettoniche, percorsi che contengono materialmente i temi di cui parlano. Sono insomma simboli consapevoli, capaci di impressionare, ma anche disponibili a un’interpretazione intellettuale complessa. In questo e nel sottofondo didattico, ricordano il funzionamento di buona parte della tradizione culturale ebraica, in particolare la densità simbolica e il rigore intellettuale (sotto l’apparente semplicità) di certi racconti talmudici e midrashici.

Quel che colpisce di più in questa ricchezza museale è la volontà di educazione che essi mostrano, la fiducia nell’utilità di spiegare, di raccontare, di mantenere la memoria, di ragionare sulla storia vicina e lontana. E’ lo stesso spirito che è stato sempre presente nella cultura ebraica: lo studio, l’apprendimento, la discussione intellettuale è la via principe dell’apprendimento e quindi anche dell’etica, della capacità collettiva di costruire le condizioni per la vita.

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Ugo Volli


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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