Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/03/2016, a pag. 11, con il titolo "Salvini in cravatta: prove da leader nel viaggio in Israele", la cronaca di Alberto Mattioli.
Alberto Mattioli
Matteo Salvini ieri a Gerusalemme
Ci voleva un invito alla Knesset per vedere Matteo Salvini in giacca e cravatta «di governo» (l’orecchino, però, è sempre lì, unica reliquia della Lega «di lotta» nel look da esportazione del segretario). L’appuntamento al Parlamento israeliano, nella prima di tre giornate fra Gerusalemme e Tel Aviv, val bene una cravatta. Il colpo, mediatico e politico, è importante. Al capopopolo estremista e antisistema viene riconosciuta la patente di presentabilità internazionale. E poi, fin dai tempi di Fini, il passaggio per Israele è una tappa obbligata per i leader o aspiranti tali della destra italiana.
Gli incontri sono di buon livello, anche se per ragioni di ritardi e di dibattito in corso in Aula è sfumato quello con il vicepresidente della Knesset, Nachaman Shai. Vuol dire che gli israeliani, che in Italia hanno sempre guardato di preferenza al centrodestra piuttosto che alla sinistra filopalestinese, e ancora di più guardano oggi, con la destra di Netanyahu al governo, cercano un nuovo interlocutore. Il vecchio Berlusconi da sempre è un amico ma, anche visto da qui, il suo futuro politico appare incerto. Tanto vale, allora, vedere com’è questo Salvini, per l’occasione accompagnato dai due vicesegretari federali, Lorenzo Fontana e Giancarlo Giorgetti, e dal tessitore delle relazioni con Israele, il deputato romagnolo Gianluca Pini. Le comunità ebraiche italiane, annuncia Salvini, gradiscono. La nostra ambasciata supporta, e del resto da parte israeliana assistono ai colloqui dei funzionari degli Esteri. Rispetto ad altre tournée all’estero, siamo su un altro pianeta. Il segretario apprezza: «In passato non è stato sempre così». Decisamente no. Magari sarebbe l’occasione per migliorare un po’ l’inglese. «Lo parlo più o meno come Renzi», ammette.
Poi, si sa, in queste occasioni ogni interlocutore dice quel che l’altro vuole ascoltare. Così per il russofilo Salvini è stata musica sentire da Tzachi Henegbi, del Likud, influente presidente della Commissione Esteri e Difesa della Knesset, che l’amico Putin è «geniale, brillante e in Siria ha lavorato benissimo» (benché poi agli israeliani il riavvicinamento in corso fra Mosca e Teheran non piaccia per nulla). Bene che l’Europa debba intervenire in Libia, «subito e mettendo anche i piedi sul terreno». Benissimo che le relazioni di Gerusalemme con Ankara siano meno buone che un tempo. «Noi ci stiamo appunto battendo contro l’ingresso della Turchia in Europa», chiosa Salvini.
Quando poi il viceministro della Cooperazione regionale, il druso Ayoob Kara, mette in guarda contro i rischi dell’estremismo islamico e delle ondate migratorie, spiegando che i profughi vanno sì assistiti, ma in Medioriente, sembra quasi la replica dello slogan leghista «aiutiamoli a casa loro». Quanto all’opinione non esattamente lusinghiera di Gerusalemme sulla Ue, le sue cortesie per i palesinesi e i suoi bollini sugli agrumi israeliani coltivati nei territori occupati, Salvini non potrebbe essere più d’accordo. E figuriamoci sull’altro babau leghista, l’Onu. Il Capitano gongola raccontando la risposta di Hanegbi alla sua domanda sulle elezioni americane: «Speriamo che gli Stati Uniti non si trasformino nelle Nazioni Unite».
E così via, d’amore e d’accordo. Salvini: «Israele rappresenta la convivenza di realtà diverse nel rispetto dell’ordine e della legalità. Un modello da seguire nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo». Quanto agli amici di CasaPound, che probabilmente non apprezzerebbero e sicuramente qui non sono apprezzati, «da due anni non abbiamo più rapporti», amen. Insomma, se son rose fioriranno. Di certo, sono state piantate.
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