Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 27/03/2016, a pag. 1/4/5, con il titolo "Sinai, l'ultimo avamposto della cristianità", il reportage dal Sinai di Domenico Quirico
Domenico Quirico
Ecco: sono davanti a una delle giunture del mondo. Suez, il tunnel sotto il canale che collega l’Egitto al Sinai, dove si combatte quella che gli uomini dell’internazionale islamica mi hanno descritto come «la battaglia delle connessioni». Per stringere nel pugno i nodi del mondo che vogliono conquistare, servono loro il deserto con le carovaniere che collegano il Mediterraneo all’Africa, la terra tra i due fiumi nel vicino oriente, il lago Ciad saldatura tra Ovest e Est dell’Africa. E il Sinai, appunto, passerella tra Asia ed Africa. La guerra Qui si combatte senza rumore, senza un intoppo, come un meccanismo ben oliato. Questi rimuginatori di assoluto, gli uomini della jihad, innalzano le bandiere de «i partigiani di Gerusalemme» e della «Provincia del Sinai» Ansar beit al maqdis, infeudata al califfato. Quattro anni fa erano forse 300, ora sono almeno 5000. Nel cuore della penisola, a Rafah e a Seik Zoweid dove sfilano impudentemente con mezzi e bandiere e hanno creato tribunali islamici che lavorano di spada e forca, attaccano brutalmente l’esercito egiziano, lo tengono a bada. Perché si sono infiltrati nelle tribù beduine, una decina, 700 mila persone, della penisola, nutrite dal succo della tradizione brigantesca, tormentati dal fiele di una antica insofferenza nei confronti del Cairo che li emargina, avaro dei soldi del turismo e del petrolio. Il vento cattivo gonfia le loro vele, ricevono rinforzi, i più determinati tra i malcontenti, i più furiosi tra i rancorosi. Vi si ritrova di tutto, come sempre in queste congiure. Sì, ancora la perfidia capace del califfato: dotato di genio proteiforme, di una singolare flessibilità, sa suonare su tutti i toni la gamma della rabbia umana. Così tutto il Sinai è diventato insicuro, «dimora della guerra». La penisola del Sinai Il Sinai: qui sono fianco a fianco l’allegria insolente del nostro turismo e i vaticinatori del mondo perfetto, di una sensibilità fanatica, la deformità trascendente. E ancora: nel Sinai c’è Dio, il nostro, della tradizione ebraico-cristiana, il dio del roveto ardente e di monasteri vecchi di sedici secoli, un dio così scialbo, così fiacco, così scarsamente pittoresco, e l’effervescenza del dio totalitario, un dio frenetico, sudicio e malsano che si annuncia come liberazione paradisiaca. Il Cairo Sono partito dal Cairo su un bus di linea. Viaggiare senza separarsi. Ascoltare. La stazione degli autobus è davanti all’Hilton, a pochi passi Tahrir, piazza della bella gioventù, orfana di rivoluzioni, aiuole tirate a specchio, coppiette timide che parlano fitto. Cairo, con l’ostinata pigiatura di odori, colori e fetori che si difendono eroicamente contro la modernità, e le indolenze concentrate della folla negli autobus che sembrano rapirli via, nel mare del traffico. Il percorso Due ore appena, ed è il Sinai con i suoi cieli imbottiti di placida polvere d’oro, l’immobile andare delle dune gialle e le palme serene che benedicono le sponde del canale. Dal bus si passano in rivista tribù, popoli di palme con i tronchi quasi umani. Governano lo spazio come signori, gruppi disordinati, vedette, filosofi di solitudine meditante. Presentire l’acqua, le gobbe assetate dei sassi. Le sagome delle navi, nel Canale, sembrano spuntare dalla terra che tiene schiacciata e incollata a sé ogni cosa, casupole acque vive e acque morte, sotto un cielo troppo vasto. Da Rassudr, dove dromedari pascolano miti in pianure non di steli ma fertili di immondizie, a Abu Zinema file di cadaveri di villaggi vacanze dai nomi scintillanti, Sea star, Golden Beach, già ridotti a basso tortuoso casupolame di limo, ruderi di un turismo morto. L’autobus si svuota ad ogni sosta. Qualche soldato o lavoratori del turismo che tornano a casa dal Cairo; due bimbi, silenziosissimi per sei sette ore. E una ragazza che ci fissa con le sue pupille di gomma nera. I posti di blocco Quando iniziano le ciminiere delle raffinerie e i fuochi perenni delle trivelle in mare inizia la strada del Sinai infido, pericoloso. Ai continui posti di blocco i soldati in assetto di guerra prendono il posto dei poliziotti, giovanissime reclute, nascoste in buche fino al mento, o al riparo di artigianali scudi di ferro, come guerrieri antichi. Davanti alle trincee e ai blindati capre di una magrezza orrenda trascinano mammelle flosce e prolisse. Le auto sono rare, bus di linea come il mio sfrecciano ad alta velocità, lampeggiando. Sulla striscia di asfalto guizzano gallabie sventolanti di crespo nero che spariscono nella montagna. Sharm el-Sheik In fondo a tutto, Sharm el-Sheik si annuncia dopo otto ore con chilometri di strada illuminata sul nulla. Ottanta nuovi alberghi già chiusi in pochi mesi, i turisti ridotti al dieci per cento dell’epoca d’oro, ultimi a sparire gli irriducibili russi: Disneyland assediata dalla paura che la minaccia, che gironzola ormai nei dintorni, indefinibile, invisibile. La spiaggia è tutta delle turiste arabe, custodite da mute da sub e camicioni neri, vischiose d’acqua marina, che nuotano disinvolte attraverso le meduse che appestano il mare. Il furore dei tempi ha già ammutolito questo luogo nostro. È ora di riprendere la strada in salita verso Santa Caterina, la nostra meta, il più antico monastero del mondo, attraverso gole spaventose, corridoi pieni di sabbia, tra muri sempre più alti e scuri. Un tempo era una gita nei giorni di mare mosso, oggi un raro pellegrinaggio nel silenzio di Dio. L’aria tra i graniti bruni dai selvaggi atteggiamenti diritti si fa fredda, più sonora stranamente. I suoni, il motore, il rumore dei passi si prolungano come la fuga di grandi organi in infinite cattedrali. Tutto a poco a poco diventa più gigantesco. Nel freddo mattino, tra bruschi scrosci di pioggia, stupori nitidi come se tutte queste cose fossero morte di millenaria vecchiaia. Il monastero irrompe con il verde degli ulivi e dei cipressi: tra un mese sarà tempo di raccogliere, anche quest’anno, come nei secoli dei secoli. Sempre. E poi sarà la volta dei grappoli per il vino della messa. Tra un mese anche qui sarà Pasqua, la Pasqua ortodossa. Lo scoramento ti prende, non la speranza avvicinandoti alla porta. Troppo lontani i tempi i cui l’Eterno discese qui in nuvole di fuoco, al suono terribile dei corni. Tutto questo è finito: Santa Caterina non è un luogo vuoto di Dio, come il cielo e le nostre anime moderne. Purtroppo Dio è rimasto, ma è solo, con un pugno di monaci, una ventina, fedeli a custodire il suo esilio. La solitudine: il marchio dei cristiani d’Oriente, che abbiamo dimenticato e ora riscopriamo per piangerne, inutilmente, l’ennesima, forse definitiva catastrofe. L’ingresso Si apre una piccola porta in un muro spesso. Le campane suonano il mattutino con vibrazioni argentine in un assoluto silenzio e chiamano alla messa. la chiesa bizantina della trasfigurazione, una moschea, case, chiostri celle verande, costruzioni senza tempo incurvate contorte caduche grovigli di scale gallerie piccoli archi scendono nei precipizi giù in basso. Si è come racchiusi in un pozzo. Le cime del Sinai salgono al cielo striate, tagliate in un granito di un rosso sangue senza macchie, senza ombre, che da vertigine. Ogni tanto un monaco dai lunghi capelli di donna e veste nera, andatura ricurva, scende o sale le piccole scale e sparisce silenziosamente in una sella o in quel labirinto. E subito torna la pace della morte. La paura Non veniamo più qui: per paura. È il segno della nostra sconfitta. Perfino turisti sguaiati e l’insulto dei souvenir e della paccottiglia sacra sarebbe meglio di questa assenza. Sentire il peso della storia, il fardello del presente e quell’accasciamento quando la nostalgia invoca inutilmente uno slancio ignaro delle lezioni che si traggono da tutto ciò che è stato. Siamo più marci di tutte le età, più decomposti di tutti gli imperi. Solo i musulmani hanno il coraggio di salire al monastero cristiano, curiosi. Noi, attori clorotici, ci prepariamo a recitare parti di comprimari nelle repliche del Tempo. La porta della basilica si spalanca con le sue porte di cedro scolpite tredici secoli fa quando Giustiniano regnava sul mondo, meraviglia che il deserto ha salvato dalle rivoluzioni, dai furti, da tutti i ritocchi dell’uomo. Più che dalla ricchezza della profusione di lampadari e mosaici si è colpiti dall’arcaismo quasi selvaggio di questo santuario. È una reliquia dei vecchi tempi, ci si sente immersi in un passato semplice e magnifico, così lontano e pertanto così presente e inquietante.
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