Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/03/2016, a pag. 34, con il titolo "Dal ghetto di Varsavia alla spiaggia di Aylan l'infanzia nell'abisso", la recensione di Antonio Scurati.
Antonio Scurati
Il libro di Aron (Bompiani ed.)
Che cosa dobbiamo alle vittime? Come dobbiamo, dalla nostra vita protetta e pacifica, guardare al «dolore degli altri»? Come possiamo accollarci le loro storie senza usurparne l’autorità, senza protagonismi narcisistici e senza, però, lasciare che azzerino le nostre esistenze? Come siamo indirettamente implicati in quegli orrori? Può la memoria dei nostri genocidi divenire forza attiva di resistenza? Può lo spettacolo mediatico di stragi islamiste, esodi, naufragi, cadaveri di bambini arenati sulla battigia delle nostre vacanze estive muoverci ad autentica pietà?
Sono gli interrogativi cruciali del nostro tempo in questo nostro pezzetto di mondo agiato e sicuro come nessun altro mai eppure lambito dalla tragedia umana sia nella prossimità geografica che in quella storica. Sono gli interrogativi che ora ripropone la pubblicazione in Italia de Il libro di Aron, di Jim Shepard (Bompiani, pp. 320, € 18). Li ripropone - voglio dirlo chiaramente - con tale forza da spingermi a dubitare se consigliarne la lettura. È un romanzo magistrale, ma proprio per questo letteralmente terribile. Uno di quei rari casi in cui l’aggettivo «devastante» non è vuota iperbole.
I giorni del massacro
Il libro di Aron racconta la vita nel ghetto di Varsavia tra l’estate del 1940, quando se ne cominciò la costruzione, e quella del 1942, quando fu avviato il sistematico sterminio degli ebrei d’Europa. Racconta, cioè, uno dei luoghi sulla terra e dei momenti nella storia in cui fu inflitta la più atroce sofferenza a degli uomini da parte di altri uomini. La storia del ghetto di Varsavia è la storia di una carneficina dentro la carneficina. Durante l’invasione della Polonia, la popolazione di Varsavia è massicciamente bombardata dal cielo, le colonne di profughi sono bombardate dal cielo, i reparti delle Waffen-SS fucilano in massa i prigionieri. Centocinquantamila civili polacchi sono massacrati in pochi giorni dai tedeschi, 250 mila ebrei polacchi cadono vittime, nell’orgia generale, anche dei pogrom scatenati da altri polacchi. Il 27 settembre Varsavia cade. Nel suo ventre i nazisti erigeranno un muro in cui rinchiuderanno il 40% della popolazione, quasi un abitante su due, condannandolo alla morte per denutrizione, tubercolosi, fucilazioni sommarie. Quando il ghetto insorgerà, verrà liquidato. Quando, poi, insorgerà l’intera Varsavia, Hitler ne ordinerà la distruzione. L’80% del suo intero corpo edificato sarà deliberatamente raso al suolo. Quattro edifici su cinque.
Pioniere della pedagogia
Questa storia, già insopportabile, Jim Shepard la racconta dal punto di vista di un bambino: «Nei pressi del mio palazzo c’era una gran confusione. Un gruppo di tedeschi stava prendendo a calci qualcosa urlandole contro. Non avevo mai sentito degli uomini gridare in quel modo. La gente si fermava a guardare. Non avrei voluto avvicinarmi troppo, ma erano davanti al mio portone. La cosa in verità era un uomo sdraiato di fianco sull’acciottolato e quando emise un grido di dolore, capii che era mio padre». Questa scena, che da sola basterebbe a traumatizzare per sempre la vita adulta di un uomo del nostro tempo, è per il bambino del ghetto di Varsavia soltanto l’inizio di una discesa agli inferi che scandirà la sua infanzia e la sua intera, breve vita.
Al centro di questo paesaggio apocalittico si erge la figura desolata e gigantesca di Janus Korczak, pediatra, pioniere della pedagogia moderna, fondatore di un impossibile orfanatrofio all’interno di un ghetto dove i bambini muoiono a decine ogni giorno. Vecchio, stanco, malato, sconsolato, perseguitato, povero, solo, ebreo, Korczak con il suo ultimo fiato crea un ultimo riparo per quei bambini nel quale può soltanto insegnar loro «a morire serenamente». La mattina del 5 agosto 1942 è, infatti, deportato a Treblinka assieme a tutti i suoi protetti e compie un ultimo straziante miracolo di pietà consolatrice: riesce a farli uscire dalla loro casa vestiti e puliti, ordinati, mano nella mano. Chiude lui stesso il corteo e bada a mantenere i bambini sulla carreggiata. Riconosciuto dagli ufficiali nemici, è trattenuto ma si rifiuta di abbandonare i suoi bambini. Pare, purtroppo, che sia morto di dolore durante il viaggio. L’immaginazione arretra al pensiero di quei bambini che scendono dai vagoni piombati verso i forni crematori senza il suo conforto.
Il rigore letterario, la grazia di precisione con cui Shepard riesce a tratteggiare le figure del bambino e del vecchio aggiungono strazio a strazio, soprattutto perché Korzczak, predicando e praticando nel bel mezzo dell’Olocausto una pedagogia fondata sul diritto del bambino al rispetto, che anticipa di decenni la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, stabilisce una connessione vivente con il nostro presente. La pedagogia amorevole basata sul diritto del bambino a essere quello che è - e non sul suo dovere di evolversi verso uno stadio «superiore» della condizione umana - proprio questa pedagogia ci sforziamo di adottare oggi noi genitori di pochi figli iperprotetti. Ma quello gettato dal genio filantropico di Korzczak è un ponte sull’abisso. Abissale è, infatti, la differenza tra le nostre attuali condizioni di vita e quel trionfo della morte abietta che fu il ghetto di Varsavia. Come abissale è la differenza tra le condizioni di vita dei nostri figli e quelle di un bambino siriano che viene a morire sulle nostre spiagge. Così grande la distanza da spingere la nostra percezione della realtà a dubitare sia che la Seconda guerra mondiale possa essere realmente accaduta sia che la tragedia dei profughi stia realmente accadendo. E perfino a dubitare che la letteratura possa gettare ponti su tali abissi. Ci resta la speranza che così sia.
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