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La Stampa Rassegna Stampa
24.03.2016 Attentato a Bruxelles: impariamo dagli errori fatti
Paolo Mastrolilli intervista Alan Dershowitz, Francesco Semprini intervista Mordechai Kedar

Testata: La Stampa
Data: 24 marzo 2016
Pagina: 13
Autore: Paolo Mastrolilli - Francesco Semprini
Titolo: «'Il caso Salah ci insegna: dobbiamo interrogare meglio' - 'Servono controlli più sofisticati non solamente nelle moschee'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/03/2016, a pag. 13, con il titolo "Il caso Salah ci insegna: dobbiamo interrogare meglio", l'intervista di Paolo Mastrolilli a Alan Dershowitz; con il titolo "Servono controlli più sofisticati non solamente nelle moschee", l'intervista di Francesco Semprini a Mordechai Kedar.

Paolo Mastrolilli: "Il caso Salah ci insegna: dobbiamo interrogare meglio"

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Paolo Mastrolilli

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Alan Dershowitz

Ecco gli articoli:

«Si potevano usare altri metodi, per far parlare Salah Abdeslam, ma io non condivido la tortura. Capisco che quando ci sono bombe innescate, alcuni Paesi potrebbero scegliere questa strada, ma dovrebbero farlo apertamente e nel rispetto della legge».
Alan Dershowitz è uno degli avvocati penalisti americani più noti, ha fatto parte della squadra che aveva difeso dall’accusa dell’omicidio della moglie l’ex campione di football O.J. Simpson, e insegna all’università di Harvard. Per valutare la strage di Bruxelles, dunque, prende una posizione radicata nella sua cultura giuridica e personale.

Davanti a situazioni di questo tipo, quando la polizia ha nelle mani un terrorista che potrebbe essere a conoscenza di attentati imminenti, non sarebbe lecito usare forme coercitive di interrogatorio per salvare altre vite umane?
«Come prima, cosa, bisogna notare che Salah Abdeslam non è il caso perfetto per chi vuole giustificare la tortura. Non siamo sicuri di nulla, in questa vicenda. Non sappiamo se era a conoscenza del complotto, oppure se è scattato a sua insaputa come reazione al suo arresto».

Ma conosceva i presunti colpevoli.
«La definizione di una “ticking bomb”, cioè una bomba innescata che sta per esplodere, è diversa da questo caso. È una persona che sa per certo dell’imminenza di un attacco, lo ha minacciato, o ha detto di sapere che è in corso. Salah stava collaborando, e le informazioni che possediamo finora non lo fanno rientrare con certezza in questa categoria».

Non pensa che avesse comunque notizie utili agli investigatori per prevenire la strage?
«Forse. Ma allora bisognava usare altri metodi per estrarle, che forse sono stati trascurati».

Quali?
«Nel suo caso, visto che stava collaborando, e che durante gli attacchi di Parigi aveva rinunciato a farsi esplodere, penso che la carota sarebbe stata più utile del bastone. Forse gli investigatori lo hanno fatto, ma se fossi stato in loro avrei offerto l’immunità, o magari una sentenza ridotta, in cambio di notizie per sventare altri attentati. È una persona che ha dimostrato di voler vivere, ha avuto paura di uccidersi, o comunque ha preferito non portare a termine la sua missione suicida, e quindi probabilmente è sensibile a questo genere di offerte».

Se invece fosse stato una «ticking bomb» nel senso classico, lei avrebbe voluto forme più coercitive di interrogatorio per fermare i suoi complici?
«Capisco che in simili situazioni molti paesi sarebbero favorevoli alla tortura. Io personalmente non sono d’accordo, ma penso che comunque bisognerebbe scegliere questi metodi coercitivi alla luce del sole».

Cosa vuol dire?
«I governi che scelgono di usare la tortura per estrarre informazioni in situazioni di pericolo imminente, cioè nel caso di “ticking bomb” acclarate, dovrebbero dire pubblicamente che lo fanno. Quindi dovrebbero approvare leggi specifiche, per definire con esattezza i casi in cui intendono adottare la tortura e i metodi prescelti. Solo a quel punto potrebbero impiegare le misure coercitive, ma nel rispetto di queste regole stabilite, riconosciute e pubblicate».

Francesco Semprini: "Servono controlli più sofisticati non solamente nelle moschee"

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Francesco Semprini

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Mordechai Kedar

«Il peccato originale del Belgio e dell’Europa è stato consentire ai musulmani di giungere in massa e creare enclavi nelle città, avulse dalla società, delle pericolose variabili esogene che si sono trasformate in piccole Isis nel cuore dell’Occidente». È perentorio Mordechai Kedar, guru della comunità di analisti israeliani, secondo cui la crisi è tale da imporre il ripristino di controlli ai confini nazionali per stroncare quello che è divenuto il sistema mafioso del Califfato.

Quali sono stati gli errori commessi dalle autorità belga?
«Il primo errore è stato consentire a così tanti musulmani di arrivare in Belgio e sistemarsi lì. Oggi il 40% della popolazione di Bruxelles è islamica, si sono stabiliti permanentemente, sono cresciuti numericamente e senza integrarsi, creando enclavi, senza nessun riguardo per la cultura e le usanze di chi li stava ospitando. Non sono mai voluti diventare europei».

Qui però andiamo indietro di molti anni?
«Esatto, il primo errore è stato commesso negli Anni 60 e ’70, a causa della pressione del mondo arabo che, in cambio di petrolio e gas, ha avuto la garanzia dai Paesi occidentali di accoglienza dei cittadini che lasciavano quelle nazioni. Era parte del contratto che ha fatto dell’Europa una sconfitta».

Una débâcle annunciata?
«A muoversi non sono stati gli individui, ma culture e religioni. Quella gente non si è spostata dall’Algeria alla Francia, ma ha portato l’Algeria in Francia, il Marocco in Olanda, la Libia in Italia, la Turchia in Germania e ora la Siria e l’Afghanistan in Grecia. E così hanno permesso loro di creare un piccolo Stato islamico a Parigi, Bruxelles, Londra e, temo, anche a Milano».

Quindi non finisce qui?
«Si è creato un sistema, una mafia, non si tratta di singoli jihadisti, o nuclei e cellule, c’è un sistema di fiancheggiatori, di persone incensurate pronte ad aiutarle, di radicalizzati fai-da-te, ma anche di conniventi silenziosi e di omertà. Basti vedere gli spostamenti che Salah ha compiuto in tranquillità, da uno Stato all’altro, da una casa all’altra, da una vettura all’altra. Per non parlare dei passaggi di mano dei materiali. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno ha detto: va oltre la jihad».

Senza gli immigrati però l’Europa andrebbe in atrofia...
«E qui c’è un problema tutto vostro, un problema di valori e di cultura. Ad esempio, le donne europee dovrebbero tornare a fare le mogli e le mamme, e i governi nazionali e sovranazionali devono aiutare a fare figli, a crescere demograficamente, a rompere questa dipendenza dall’immigrazione».

Oltre ai nodi culturali, ci sono state falle nella sicurezza?
«Prima di tutto la mancanza di cooperazione e di dialogo tra le intelligence di alcuni Paesi, questo ha creato problemi pratici sui riscontri più semplici. Pensiamo ai tanti modi in cui viene scritto il nome Muhammad, non solo da un Paese all’altro, ma da un ufficio all’altro, questo non fa altro che rendere iniqui indagini e controlli, anche sui documenti più immediati. Occorre omogeneità in strutture e processi».

Non ci può essere Ue senza unione in sicurezza e controlli...
«Controlli, ecco il nome del gioco al quale stiamo giocando, Israele su questo può aiutare molto l’Europa. Serve sorveglianza concertata, non solo nelle moschee, gli jihadisti non sembrano nemmeno tali al giorno d’oggi, e forse in moschea entrano solo dalla porta secondaria».

Pensa che delle responsabilità ce le abbia anche Schengen?
«Schengen consente ai terroristi di muoversi indisturbati da un Paese all’altro, questo è sconcertante. Quando uno Stato elimina i propri confini nazionali deve essere forte, o implode e fa affondare gli altri. Non sono contrario alla libera circolazione delle persone, ben inteso, ma tutto cambia quando questa diventa uno strumento di guerra».

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