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Lasciar andare Il premio Nobel a Philip Roth finora non l’hanno voluto dare. E probabilmente non glielo daranno mai. Eppure ben pochi possono dubitare del fatto che sia il maggior scrittore americano vivente, come dimostra la miriade di premi e di onori che gli sono stati conferiti. E altrettanto pochi sono coloro che non riconoscono nel suo Pastorale americana, Premio Pulitzer nel 1998, un capolavoro assoluto, un romanzo che attraverso una vicenda famigliare (come quasi sempre Roth ama fare) offre un ritratto acutissimo e amaro della società americana, dagli anni del dopoguerra fino a quelli del Vietnam, dalle illusioni e dalle follie della giovane generazione anti-sistema alle illusioni e alle sconfitte di quella uscita dalla guerra. Una generazione che spronata dal clima di «esaltazione collettiva» che si affermò dopo la fine del conflitto (e dei sacrifici) si lanciò con convinzione ed entusiasmo nella costruzione di un’America più ricca e più grande che mai; e che dopo, come nel caso del suo protagonista, si ritrovò a dover nascondere i fallimenti dietro la facciata del benessere. È in questo romanzo che Roth ha raggiunto il vertice della sua produzione letteraria. Una produzione vastissima che ebbe inizio con i racconti di Goodbye, Columbus e con il romanzo Lasciar andare, che Einaudi presenta ora nella nuova traduzione di Norman Gobetti. Ritradurre è sempre giusto, non tanto per le eventuali mancanze dei precedenti traduttori, ma perché le traduzioni in italiano invecchiano rapidamente; soprattutto quando si tratta di testi recenti e ancor di più quando, come in questo romanzo, il dialogo ne occupa un parte rilevantissima (e proprio nei dialoghi si rivela lo straordinario «orecchio» di Roth, la sua capacità di cogliere nel parlato l’essenza del modo di essere - e di fingere - dei personaggi). Lasciar andare è un romanzo del 1962, scritto avendo in mente la vastità e la complessità dei romanzi di Henry James. L’America è quella degli Anni Cinquanta, vista quindi ancora a caldo, ma con occhio già distaccato e fortemente critico. All’inizio il narratore è Gabe Wallach, un giovane intellettuale ebreo, come Roth – e come gli autobiografici Zuckerman e Kepesh dei romanzi successivi. Gabe racconta del suo incontro all’Università dell’Iowa con Paul Herz, anche lui ebreo, e con sua moglie Libby. È innanzitutto nei loro confronti che Gabe cerca di mettere in pratica il suo desiderio di conciliare il mondo reale con il «mondo dei sentimenti» di James – che nella pratica vorrà poi dire cercare di aiutare il prossimo, essere generoso e responsabile. La seconda parte (delle sette in cui è diviso il romanzo) è però narrata in terza persona, per tornare poi al racconto di Gabe e poi di nuovo alla terza persona. Da questo intreccio tra finta autobiografia e narrazione romanzesca nasce il ritratto di un mondo regolato da convenzioni e pregiudizi rispetto ai quali Gabe si orienta in modo contraddittorio. Il pregiudizio religioso gioca un ruolo decisivo. Paul è ebreo, Libby è cattolica; e la famiglia di lui cerca di convincerlo a non sposarla, mentre il padre di lei la disereda. Il dilemma di Gabe è come conciliare la sua ricerca di autonoma identità con le sue radici (la forza identitaria del mondo ebraico americano, attraverso il microcosmo della natia Newark, starà alla base di molti dei romanzi maggiori di Roth). Per la verità, oltre mezzo secolo dopo, quel tipo di pregiudizio, seppure non più così forte, non è scomparso. È quasi del tutto scomparso, invece, il pregiudizio di natura sessuale, affidato soprattutto al rapporto tra Gabe e Martha, una donna estremamente disinvolta nei comportamenti e nelle parole. In realtà il legame più profondo è quello con Libby: le ultime due pagine del libro sono costituite dalla lettera che Gabe, a Londra e in partenza per l’Italia, scrive a Libby. È una lettera inconcludente: «devo capire», dice Gabe. Non capirà mai. PAOLO BERTINETTI - Tuttolibri La Stampa |
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