Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/03/2016, a pag. 26, con il titolo "Quando un film oltrepassa i limiti del cinema e dell'arte", il commento di Donatella Di Cesare.
Ci fa piacere pubblicare questo commento di Donatella Di Cesare, con cui, per la prima volta, concordiamo in pieno.
Ecco l'articolo:
Donatella Di Cesare
La telecamera entra per la prima volta nel campo di sterminio. Segue Saul, rincorre la grande X rossa sulla sua schiena, il marchio del Sonderkommando, accompagna il suo sguardo, scruta implacabile il mostruoso che lo circonda, indugia sul suo volto. Ed è il volto indimenticabile, opaco e icasticamente espressivo dell’attore e poeta Géza Röhrig. Girato con una tecnica quasi desueta, il film fuga la spettacolarità delle immagini, sceglie la prospettiva del protagonista, restituisce quell’universo asfittico.
È Auschwitz-Birkenau. Ma potrebbe essere anche Sobibór o Treblinka o Chełmno – un Vernichtungslager, un campo di annientamento, non di lavoro. La differenza è decisiva. Perché la «soluzione finale» si è compiuta nelle officine hitleriane dove la catena di montaggio fabbricava ininterrottamente cadaveri, dove gli esseri umani, chiamati Stücke, «pezzi», venivano introdotti con il raggiro nelle camere a gas e, una volta gassati, venivano bruciati e ridotti infine al nulla della cenere. Delle fabbriche di cadaveri, dove la mortalità raggiunse il 99%, si sa ancora molto poco; quasi tutti i superstiti tornarono da Auschwitz che era campo sia di concentramento che di sterminio.
Si può dire allora che Il figlio di Saul, scritto e diretto dal giovane regista ungherese László Nemes, sia il primo film sulla Shoah. Perché rompe i tabù, varca la soglia della camera a gas, a cui si era fermato Spielberg in Schindler’s List, si spinge nel luogo dell’annientamento, entra nel mondo in cui abita il Sonderkommando. E solleva così la grande questione di quei membri del «comando speciale» obbligati a lavorare nelle officine della morte. Ebrei costretti a incenerire altri ebrei.
Qualcuno parla ancora, con leggerezza, di «collaboratori». Già Primo Levi aveva introdotto l’espressione inquietante: «zona grigia». Se Nemes sceglie di guardare lo sterminio con gli occhi di Saul Ausländer, è per dire che non potremo mai tentare di capire, se non ci interrogheremo sulla figura emblematica del Sonderkommando. Non per rispondere con moralistiche condanne, bensì per considerare lucidamente la responsabilità frantumata che i boia nazisti hanno inaugurato. Ecco la loro invenzione più feroce e più duratura.
Anche nella sceneggiatura raffinata e nella trama sublime il film oltrepassa i limiti del cinema, quelli dell’arte, coinvolge la riflessione filosofica, chiama in causa il pensiero. Nell’officina dove sopravvive Saul, tra la camera a gas e il forno crematorio, irrompe la vita, quella di un bambino undicenne che respira ancora. Il boia lo finisce con un colpo. Ma quel corpo diventa per Saul motivo di riscatto. Non è suo figlio; potrebbe esserlo. Cerca un rabbino per una degna sepoltura. E mentre, sullo sfondo di tutti i terribili rumori del lager, gli ordini in tedesco si susseguono ingiungendo di lavorare velocemente i «pezzi», Saul ripete che quel corpo è integro. Ma perché, proprio quando si prepara la rivolta armata del Sonderkommando, Saul vorrebbe solo sottrarre quel cadavere di bambino alla voracità del forno? Che senso ha? I compagni glielo rimproverano: «Tradisci i vivi per un morto».
Saul sceglie un’altra via. Punta l’indice sull’offesa arrecata alla dignità della morte. Questo è l’oltraggio supremo che Auschwitz ha inferto all’umanità. La sepoltura del figlio è il riscatto di Saul. Questo film, destinato a diventare un classico, è indispensabile per capire non solo quel che è avvenuto, ma anche quel che avviene nel nostro mondo, un mondo che resta all’ombra di Auschwitz. E dovrebbe essere visto soprattutto da insegnanti e studenti.
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