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La Stampa Rassegna Stampa
15.03.2016 La guerra chimica di Assad e dei jihadisti
Commenti di Giordano Stabile, Paolo Mastrolilli

Testata: La Stampa
Data: 15 marzo 2016
Pagina: 11
Autore: Giordano Stabile - Paolo Mastrolilli
Titolo: «Quella guerra sotterranea dei gas che ha fatto 1491 morti in cinque anni - Al Afari, il chimico di Saddam passato a fabbricare armi per l'Isis»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/03/2016, a pag. 11, con i titoli "Quella guerra sotterranea dei gas che ha fatto 1491 morti in cinque anni", "Al Afari, il chimico di Saddam passato a fabbricare armi per l'Isis", i servizi di Giordano Stabile, Paolo Mastrolilli.

Ecco gli articoli:

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Giordano Stabile: "Quella guerra sotterranea dei gas che ha fatto 1491 morti in cinque anni"

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Giordano Stabile

Una bambina di tre anni è l’ultima vittima della guerra chimica che si è combattuta in Siria e in Iraq dal 2011 a oggi. È successo sabato a Taza, una cittadina alle porte di Kirkuk, nel Nord iracheno. Una pioggia di razzi lanciati dall’Isis è piovuta sulla città difesa dai Peshmerga curdi. Una nube bianca ha avvolto strade e case. Seicento persone hanno mostrato subito i sintomi di una sostanza tossica, probabilmente clorina: difficoltà a respirare, bruciori, disidratazione. La piccola, portata all’ospedale locale, è morta poco dopo.

L’Onu ha confermato almeno quattro altri casi di attacchi con agenti chimici da parte dell’Isis. Lo scorso 10 febbraio il capo della National Intelligence americana, James Clapper, ha rivelato in un rapporto che lo Stato islamico è in grado di produrre «in casa» gas mostarda, o iprite, molto più pericoloso della clorina. Il rapporto dei servizi Usa ha stabilito che almeno due persone sono state colpite «da gas mostarda sulfureo in un attacco chimico in Siria dell’agosto 2015». E ci sono molti altri casi sospetti.

I primi casi
L’allarme dell’Intelligence Usa ha portato all’offensiva contro «le fabbriche chimiche dell’Isis» e alla cattura del responsabile del programma Sleiman Daoud al-Afari, per estorcergli informazioni e distruggere le infrastrutture. Ma se in questo momento il maggiore pericolo viene dall’Isis e riguarda soprattutto i curdi iracheni, è in Siria che in questi anni si è combattuta una sotterranea guerra chimica.

Un rapporto della Syrian American Medical Society (Sams), pubblicato ieri, ha documentato uno per uno 161 attacchi, dal 23 dicembre 2012 al 25 ottobre 2015. Un lavoro sistematico, fatto in collaborazione con ong, medici, ospedali sul posto, che ha raccolto cartelle cliniche, materiale fotografico, testimonianze. La radiografia di una strage passata sottotraccia: 1491 morti, 14.581 feriti. Il 77% degli attacchi, sottolinea il rapporto della Sams, «è avvenuto dopo la risoluzione dell’Onu numero 2118» che ha portato allo smantellamento dell’arsenale chimico della Siria.

L’attacco di Goutha
Era il settembre del 2013. Un mese prima, il 21 agosto 2013, a Goutha e a Moadamiya, nei sobborghi di Damasco, era avvenuto il più grave degli attacchi chimici, con il più terribile degli agenti: il Sarin. A essere colpite dal gas nervino erano due roccaforti dei ribelli che combattevano il regime di Bashar al-Assad. A pagarne le conseguenze furono i civili: 1347 morti, diecimila feriti. I sospetti, mai confermati, si sono indirizzati subito verso le truppe governative.

Il presidente americano Barack Obama era sul punto di lanciare un attacco aereo. I cacciabombardieri francesi Rafale erano già in volo sul Mediterraneo. Dopo una passeggiata nel giardino della Casa Bianca Obama decise di fare marcia indietro. Ma le grandi potenze, per una volta unite, convinsero Damasco a sbarazzarsi del suo arsenale sotto la supervisione dell’Onu.

Da allora non ci sono stati più attacchi massicci, ma la guerra chimica è continuata. Il rapporto Sams denuncia l’uso di bombe barile alla clorina da parte del regime ma anche una incidenza sempre maggiore di attacchi dei ribelli islamisti. Come quello del 24 agosto 2015 a Mare’e, nei sobborghi di Aleppo, condotto probabilmente dall’Isis con gas mostarda: un ragazzo morto, 85 feriti con orribili ustioni.

Paolo Mastrolilli: "Al Afari, il chimico di Saddam passato a fabbricare armi per l'Isis"

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Paolo Mastrolilli

L’esperto di armi chimiche dell’Isis Sleiman Daoud al Afari, catturato nei giorni scorsi in Iraq dagli americani della Delta Force, era noto agli inviati dell’Onu che fecero le ispezioni sull’arsenale di Saddam Hussein nel 2003, prima dell’invasione ordinata dal presidente Bush. Al Afari, noto anche come al Bakkar, era un membro ufficiale dell’apparato militare di Baghdad che gestiva il programma chimico, ed era stato interrogato dagli ispettori perché rivelasse i segreti del suo lavoro. Questo conferma che esiste un rapporto organico tra lo Stato islamico e almeno un parte dell’ex regime baathista.

Tra il 2002 e il 2003 una missione dell’Onu guidata dallo svedese Hans Blix era andata in Iraq su mandato del Consiglio di Sicurezza, per ispezionare le armi chimiche, biologiche e nucleari di Saddam Hussein. In teoria, era l’ultima occasione offerta al dittatore per rivelare i suoi programmi ed evitare l’attacco. Il Palazzo di Vetro aveva già verificato e distrutto l’arsenale di Baghdad dopo la Guerra del Golfo, ma secondo l’amministrazione Bush il regime baathista aveva nascosto delle armi di distruzione di massa, e questo giustificava l’intenzione di rovesciarlo invadendo il Paese.

Il governo iracheno voleva evitare l’attacco, e quindi aveva collaborato con gli ispettori, nella speranza di dimostrare che non aveva più programmi vietati attivi. Perciò aveva fornito accesso ai suoi specialisti, attraverso il servizio segreto del Mukhabarat. Tra gli esperti del programma chimico che gli ispettori avevano interrogato c’era anche al Afari.

I legami con il regime
Questa rivelazione è importante per due motivi: primo, prova il legame organico fra l’Isis e una parte del regime di Saddam; secondo, dimostra che lo Stato islamico ha a disposizione esperti di armi di distruzione di massa, che sanno come costruirle e come usarle a livello professionale.

L’Isis era stato fondato dal terrorista giordano Zarqawi come al Qeada in Iraq, e aveva il doppio scopo di opporsi all’occupazione Usa, e contrastare la presa del potere in Iraq da parte della maggioranza sciita legata all’Iran, che Saddam aveva oppresso. Zarqawi poi era stato ucciso, e la «surge» pensata dal generale Petraeus era riuscita a stabilizzare il Paese attraverso l’Anbar Awakening, cioè il programma che aveva coinvolto le tribù sunnite emarginate dal nuovo governo di Maliki, in modo da staccarle dai terroristi. Questa operazione però era poi finita, e Maliki aveva imposto la sua volontà. I sunniti lo vedevano come un braccio dell’espansionismo sciita iraniano nella regione, e quindi tra il dominio di Teheran, e l’alleanza con l’Isis, hanno scelto la seconda opzione. Interi blocchi dell’ex regime baathista, e del suo apparato militare, sono passati con l’Isis, finanziato dai Paesi sunniti del Golfo proprio per contrastare l’Iran, e la cattura di al Afari lo conferma.
A questo problema di natura strategica se ne unisce un secondo più preoccupante, di natura pratica. Al Afari non è un dilettante: costruiva e usava armi chimiche per mestiere, e quindi sapeva esattamente cosa faceva. Questa conoscenza nota nel dettaglio agli ispettori dell’Onu, e forse anche alcuni materiali letali, sono stati ora trasferiti nella mani dell’Isis. E chissà quanti altri professionisti dell’ex regime baathista oggi aiutano l’Isis nel perpetrare violenze, condurre attacchi militari, e forse anche preparare attentati all’estero.

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