Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/02/2016, a pag. 1-2, con il titolo "Nell'aeroporto in mano alle milizie di Tripoli dove bande armate controllano il potere locale", il commento di Domenico Quirico; a pag. 22, con il titolo "Libia, l'Italia verso l'impiego delle truppe speciali", la lettera di Fabio Sicari e la risposta del direttore Maurizio Molinari.
Ecco gli articoli:
Gino Pollicardo, Filippo Calcagno
Domenico Quirico: "Nell'aeroporto in mano alle milizie di Tripoli dove bande armate controllano il potere locale"
Domenico Quirico
Come nel teatro di Shakespeare l’inferno non si trova nelle viscere della terra, ma in superficie. L’umanità non è una genia infernale, come si dice, ma la creatrice dell’inferno. Questo ho pensato quando la Libia è entrata di nuovo nella mia stanza, a Tripoli, mi ha leccato con la sua lingua infuocata.
Stavolta per fortuna è una buona notizia: i due italiani sono liberi, gridano con voce concitata da Sabratha - stanno bene. Il mio cuore ha cominciato a battere rapido e sonoro. Poi ho visto i volti dei due ex ostaggi che rassicuravano sulla loro sorte e chiedevano di tornare presto a casa; e mi sono accorto di essere felice, felice di dare quella notizia, io che sono stato come loro, i capelli lunghi, la barba incolta di molti mesi, il pallore della pelle marchio di chi vive chiuso per lungo tempo, le tute sportive che sono una specie di divisa dei sequestrati …
Quando ti liberano è una sorta di fame d’aria. Non soltanto parole e oggetti che ritrovi e che te la ricordano, la tua vita di prima, ma anche l’aria. Anche all’aria quando eri lì prigioniero mancava qualcosa. I sentieri umani si incrociano, si separano e tornano a incrociarsi. In modo davvero strano. Qui sono stato prigioniero e qui racconto un ritorno alla libertà. La vita è davvero un disegno misterioso che non riusciamo mai a decifrare. Le leggi del tempo non esistono, anticipazioni, conseguenze e successioni si perdono nel caos. So cosa c’è dall’altra parte della prigionia. Nel momento in cui la vittima varca la porta, dimentica il suo carnefice, se lo lascia alle spalle come un fantasma dell’orrore, un usciere infilato nella livrea del tempo.
E poi sono andato a cercare un luogo che aiutasse a capire cosa è la Libia di oggi, dove possono accadere storie come queste e dove il mondo diventa ogni giorno più stretto. Prima era così largo che ci faceva paura ed eravamo così felici di vedere muri a destra e a sinistra in lontananza, ma questi muri si avvicinano così in fretta che siamo già all’ultima stanza e lì c’è la trappola in cui cadremo. La Libia dove ieri notte una donna, ancora a Sabratha, si è fatta esplodere con i suoi due bambini uccidendo due miliziani che invano tentavano di convincerla almeno a salvare i figli. La morte qui non viene più presa sul serio, è il tragico passaggio finale prima del caos. Gli ultimi anni, mesi in Libia sono stati pieni di notizie come questa. Ci cadono nell’animo come il veleno in un lago. Le piante i pesci perfino i mostri che vivono nella acque cominciano ad ammalarsi, i coloro sbiadiscono.
E allora ho scelto di passare mezza giornata all’aeroporto di Mitiga, l’unico rimasto nella capitale libica. Perché qui c’è il quartier generale di «Kara», la più potente milizia della città. È lì che ho compreso che in Libia tutto si vende e si compra, si froda e si baratta, solo pochi credono in ragioni ideali, la democrazia lo stato di diritto a cui noi ci ingualdrappiamo ossessivamente. Lasciata a se stessa dall’Occidente che si vantava di averla liberata dal tiranno si è come asciugata di tutto, ha gettato via la zavorra di questi concetti arruffati. Due cose sono rimaste: il denaro e la forza bruta. E il primo è indispensabile per far aumentare o mantenere la seconda. Non c’è altro. Ci si risveglia qui in modo doloroso, si scivola nella consapevolezza come lungo una cerniera affilata. Una terra a pezzi, intersecata da corridoi oscuri, saccheggiata, prosciugata. Un sogno tetro, un orribile incubo.
In Siria seppure in modo brutale e sanguinario ci si batte per fini, il paradiso di dio in terra, il regime di Bashar, la rivoluzione. Forse un giorno anche in questa piazza con il suo castello che sembra fatto con la sabbia da un fanciullo solitario ci fu una gioventù selvaggia, un preludio, tutto squillava e rimbombava. Forse tanto tempo fa.
L’aeroporto è una pista lebbrosa di erba, un grande mucchio di rottami, di capannoni disfatti, gli aerei in attività scivolano tra carcasse di vecchi mig, mucchi di bossoli di ottone, scatole di latta brandelli di vestiti e pezzi di materiali vari. Il mare a poche centinaia di metri scintilla, indifferente, come mercurio in onde pacate. Lunghe file di neri, i lavoratori schiavi di questa terra senza pace, si incolonnano verso le scalcinate porte di imbarco trascinando con se coperte e televisori, scatoloni e valigie. L’unico oggetto in vendita in botteghe che ricordano i poveri mercati d’Africa sono valigie e sacche. Altri migranti guardano in silenzio, enigmatici, miliziani che giocano a calcio in un campetto vicino all’entrata, urlando. Confusione polvere urla, voli perennemente cancellati e giovani, giovani sdraiati su poltrone sfondate o impegnati in chiacchiere interminabili. Torno per riprendermi il passaporto lasciato per il visto in un ufficio. Un giovane dall’occhio losco, semistorto si avvicina, parla con voce impastata, barcolla, ha risate di lince. È visibilmente sotto l’effetto di droghe. Mi fa domande: perché sei qui… chi sei? Lo giudico un seccatore, un perditempo, rispondo a sproposito. «Vieni con me» grida. È uno dei comandanti delle milizie che controllano la sicurezza dello scalo.
L’aeroporto è una delle fonti della ricchezza di Kara, ricchezza evidente, ostentata: le mimetiche e i mitra nuovi, pick-up e scintillanti auto di lusso, incredibilmente pulite. Che fanno colore nella desolazione della terra color mastice. Kara conta alcune migliaia di combattenti e controlla la capitale, il suo capo è un ragazzino di strada che impugnava un kalashnikov e si è fatto largo con forza nelle gerarchie di questo mondo violento. Ora vuole allontanare dalla città le bande di Misurata, un’altra milizia protagonista della rivoluzione. La città aspetta, rassegnata, la resa dei conti.
Lunghe file di donne velate e di uomini si allungano davanti all’ufficio della milizia. Vengono per chiedere licenze favori autorizzazioni. Un tempo li avresti trovati davanti alla sede dei comitati verdi di Gheddafi, domani, forse, faranno la fila davanti agli uffici del califfato islamico.
Questo è il vero potere. Le milizie, le centinaia di bande armate. Nessun diplomatico occidentale, nessun mediatore ha mai incontrato questa gente, semplicemente fa finta che non esistano. Vede semmai i ministri dei tre governi, troppi anche per un paese così grande.
La Libia di oggi è l’equilibrio perennemente cangiante di questa geografia di milizie, con bandiere di vario colore. Dai banditi puri all’islamismo retrogrado settario violento intollerante e formalista. Nelle loro alleanze e nelle loro mischie non c’è una logica che possiamo decifrare: problemi di potere e di soldi, geografia ancestrale di tribù, vecchi torti di cui si vuole saldare i conti. La guerra di Libia in cui stiamo per entrare banchetta nel buio della sua spelonca. Non è un insieme dai tratti chiari e evidenti, ma una massa di episodi caotici a malapena collegati tra loro, talvolta puramente casuali. Solo poi accadrà che si metta ordine nel caos, che si modelli il magma, che si creino leggende e miti, che si interpreti con chiarezza il significato sottinteso nel testo di geroglifici sanguinanti e confusi. Ma forse sarà troppo tardi.
Maurizio Molinari: "Libia, l'Italia verso l'impiego delle truppe speciali"
Maurizio Molinari
Caro Direttore,
ancora morti italiani. Sono due dei quattro connazionali sequestrati a Sabratha il 20 luglio 2015. Sono andato a rileggere un articolo sulla geopolitica: parlava di quando il Governo manifestò irritazione per i «quattro tecnici mandati allo sbaraglio». Per le modalità del rapimento, una fonte di Palazzo Chigi raccontò a un quotidiano del nervosismo nei riguardi della società che aveva inviato i tecnici in una parte di mondo dove «l’Italia non ha più un’ambasciata e dove i protocolli di sicurezza devono essere stringenti».
Ci sono quadranti di mondo dove mettere piede significa rischiare di brutto. È anche vero che si rischia dappertutto, casa nostra compresa. Tuttavia lavorare nei Paesi con forti attriti sociali richiede un supplemento di protezione e che si attivino tutte le procedure diplomatiche. Le quali - giova rifletterci su - non sempre sono sufficienti per scongiurare una tragedia umana.
Fabio Sicari - Bergamo
Caro Sìcari, l’uccisione dei due connazionali a Sud di Sabratha evidenzia come i territori appartenuti allo Stato libico sono al centro di una frammentazione che ha per protagonisti milizie, tribù e clan rivali il cui unico intento è assicurarsi il controllo delle risorse locali al fine di accumulare maggiore ricchezza. Adoperando la forza come strumento.
Se più Stati arabo-musulmani sono vittime di processi di implosione, e in Siria assistiamo all’esempio più sanguinoso, la Libia è il palcoscenico dove la polverizzazione del controllo del territorio è più avanzata. Ciò consente a terroristi, criminali e trafficanti di più matrici di accumulare potere e porre minacce dirette alla sicurezza del Mediterraneo, Italia inclusa.
Da qui l’interrogativo sul che fare. La risposta arriva dalla norma, approvata a fine 2015 dal Parlamento, che consente di impiegare truppe speciali all’estero in missioni per la sicurezza nazionale, e dai conseguenti decreti di attuazione, che prevedono due tipi diversi di missioni: «codice blu», guidate dalla Difesa, e «codice rosso», guidate dall’intelligence. È lo stesso schema che ha portato Usa, Gran Bretagna e Francia ad avere forze speciali in Libia da almeno due mesi.
Sulla carta le missioni italiane sono già possibili. Toccherà al premier e ai responsabili militari decidere quando realizzarle per difendere in Libia interessi nazionali a rischio. Primo fra tutti: la sorte dei propri cittadini.
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