Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/03/2016, a pag. 39, con il titolo " 'Il figlio di Saul', film fenomeno capace di raccontare l'indicibile", la recensione di Alessandra Levantesi Kezich.
La locandina
Alla vigilia degli Oscar, Hollywood Reporter aveva pubblicato un doppio elenco di previsioni di voto: «Chi è probabile vinca», stilato dall’analista Scott Feinberg; «Chi meriterebbe di vincere» affidato all’autorevole critico Todd McCarthy. Fra le due liste c’erano ovvie discrepanze, ma nella categoria miglior film straniero, nessun dubbio, nessun contrasto: la statuetta non poteva che andare a Il figlio di Saul, stupefacente esordio dell’ungherese Laszlo Nemes, e già insignito di una quarantina di riconoscimenti fra cui il Gran Premio della Giuria a Cannes e il Golden Globe.
Lazslo Nemes, il regista
Il fatto indiscutibile è che con questa forte, personalissima opera prima, Nemes – autore, lo ricordiamo, che collabora con il Laboratorio del Torino Film Festival – si accosta all’esperienza dell’Olocausto in un’ottica così radicale da azzerare le ragioni di chi, nel dibattito da sempre in corso sull’indicibilità del Male, ritiene impossibile trattare il tema sotto forma di spettacolo, senza cadere nella trappola moralmente inaccettabile dell’affondo estetico-sentimentale.
Saul fa parte del Sondercommando di Auschtwitz-Birkenau (è il 1944), un gruppo di prigionieri che in cambio di un pezzo di pane in più hanno il compito di convogliare man mano che arrivano i loro confratelli ebrei nelle camere a gas; per poi svuotarle rapidamente dell’ingombro dei cadaveri e lasciar posto alla mandata seguente.
Gli implacabili ritmi della fabbrica di morte nazista stanno diventando frenetici in vista dell’imminente vittoria alleata; e la macchina da presa li racconta stando brechtianamente addosso al protagonista impegnato nella sua spaventosa manovalanza di becchino, talora mettendo a fuoco i compagni di sventura, altre volte mostrando dettagli indistinti, visi smunti, brande lerce, occhi svuotati. Immerso in quell’inferno senza speranza, Saul è un uomo ridotto al grado zero di coscienza fin quando non si imbatte nel corpo del figlio adolescente.
Allora in lui insorge imperativa l’urgenza di trovare un rabbino che possa dargli giusta sepoltura: è la sua ultima spiaggia di dignità umana, è pronto a tutto pur di non rinunciarvi. Rigoroso, cupo, terribile, inequivocabile, il film di Nemes mostra che esiste un luogo misterioso della coscienza dove l’orrore estremo può sublimarsi in trascendenza. E, nel suo coniugare sopravvivenza e rinascita spirituale, è una pellicola non dissimile dagli straordinari Mad Max: Fury Road e Revenant che, insieme a Spotlight, hanno trionfato nella notte degli Oscar.
Per inviare la propria opinione alla Stampa, telefonare 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante