Riprendiamo dal FOGLIO di oggi,12/02/2016, a pag. I, con il titolo "Alla radice del jihad italiano", l'analisi di Cristina Giudici.
Cristina Giudici
Brescia. “Cosa cerca? Cosa vuole sapere? Noi non preghiamo, al venerdì riuniamo i fratelli per vedere se hanno bisogno di aiuto, di un lavoro”. A pronunciare queste parole involontariamente paradossali è Sharaf, l’imam pachistano che ci accoglie all’esterno di un ex capannone industriale in una via stretta e corta che finisce in campagna alla periferia di Brescia, nella zona industriale della Mandolossa, per convincerci che la sua è solo un’associazione culturale. Come se in Italia il confine fra moschea (abusiva) o centro culturale islamico non fosse più che labile. Come se affermare che dentro un capannone non si prega dovesse essere rassicurante e non, viceversa, allarmante. Mentre Sharaf parla, all’ora convenuta della preghiera collettiva del venerdì arriva alla spicciolata un piccolo gruppo di “fratelli”, tutti pachistani vestiti con abiti tradizionali, e salutano con riverenza l’imam non imam che aggiunge: “Lei non può entrare: dentro non c’è spazio sufficiente per una sezione femminile: le donne vengono di domenica con i bambini per imparare il Corano e poi ci sono alcuni italiani convertiti”, si lascia sfuggire.
E’ questa la prima immagine un po’ surreale di uno dei 60 centri culturali islamici, di cui molti sorti negli ultimi anni intorno alla Leonessa, nella provincia di Brescia dove complessivamente vivono 200 mila immigrati residenti. Non si prega, ma di domenica si aprono le porte per una madrasa improvvisata. Se si arriva al punto di negare la pratica del proprio culto, il quadro si tinge di tinte ancora più fosche. Eppure l’ipotesi del sermone non sermone che dovrebbe rassicurare e invece esplicita il clima di diffidenza e di arroccamento che si è venuto a creare in un periodo segnato dall’allerta terrorismo viene confermata anche da un amministratore locale di Castegnato, dove si trova questa moschea non moschea (un piccolo comune a ridosso della zona industriale bresciana), che non vuole apparire e afferma: “Non si tratta di una moschea, è solo un centro culturale, poi si sa come sono i musulmani, quando si trovano poi scappa sempre una preghiera”.
Una frase che detta così sembra una barzelletta ma che è istruttiva per capire quanta superficialità ci sia nelle periferie, dove proliferano i centri islamici, nei confronti della pratica della fede musulmana. Eppure è da questa zona industriale che è arrivato recentemente un altro allarme alla nostra intelligence per via del proselitismo wahabita pro Isis che si diffonde. Eppure, nonostante i molti occhi puntati di Digos, Ros e servizi segreti, nella Brescia multietnica con centri culturali informali sparsi per tutta la provincia, infrattati nelle zone periferiche meno visibili, meglio se ex capannoni industriali, o arrampicati su nelle valli, non è facile avere un quadro nitido. Al punto che dopo molte ricerche per scovare quel centro che ci è stato segnalato da una nostra fonte di intelligence come enclave di islamisti radicali, bisogna raggiungere il centro di Brescia per scoprire grazie ai pachistani più integrati che gestiscono la moschea più grande, la Muhammadiah – quella che manifestò sdegno e timore per le ripercussioni il giorno dopo la strage di Parigi –, che quel centro che cercavamo era probabilmente solo il nome di una persona. Un tal Hussein che è la mente di una moschea wahabita di Brescia, e si occupa di invitare dal Pakistan predicatori itineranti per entusiasmare i seguaci con lezioni sugli hadith del profeta e l’obbedienza alla sharia.
A farci questa confidenza è Hussein Sha Sajad, presidente dell’associazione Muhammadiah considerata ormai una moschea riconosciuta, dove ogni venerdì per il sermone arrivano in centinaia. E’ proprio lui a puntare il dito: “Ci sono centri wahabiti che predicano odio e violenza, grazie al sostegno di fondi che arrivano dall’Arabia Saudita”. E per essere più incisivo scrive su un foglio del nostro taccuino i nomi dei predicatori che transitano da Brescia. Tutti appartenenti al ramo più estremista del movimento indo-pachistano Ahl al-Hadith (la gente degli hadith). Come Maulana Tariq Jameel, membro del Tablighi Jamaat e direttore di una madrassa di Faisalabad, Pakistan. Oppure Shaikh Touseef ur Rehman che, come spiega nella sua biografia, ha dedicato la sua vita a divulgare il vero islam, ossia quello salafita. E così sono proprio i musulmani più integrati ad accusare di ambiguità la moschea dei Tabligh Eddawa. Un centro creato da missionari della da’wa, appello all’islam, dove per nascondersi agli occhi della città hanno messo dei lenzuoli bianchi alle vetrate. Il centro dei Tabligh Eddawa (società della propaganda) è sorvegliato con attenzione soprattutto dopo il passaggio dell’ex imam-formatore di Zingonia, nella bassa bergamasca, Hafiz Muhammad Zulkifal che veniva qui prima del suo arresto nell’aprile scorso.
Considerato dagli inquirenti un imam di rilevante spessore criminale e il detenuto più radicale nel carcere di massima sicurezza, a Rossano Calabro, dove in seguito alla strage del black friday a Parigi, con altri tre detenuti per terrorismo, ha lanciato un grido euforico in omaggio al califfo dell’Isis. In questo centro i tabligh, formalmente solo missionari che girano l’Italia per fare la da’wa, i membri del centro, interpellati dal Foglio, dicono che non si può parlare con l’imam perché è in Italia solo da 5 anni e non parla l’italiano (sic). E poi chiedono: “Ma è obbligatorio che lei faccia domande? E poi se qualcuno le risponde, è obbligatorio che lei scriva cosa le diciamo?”, chiedono. “Alcuni dei tabligh operano in questo modo: avvicinano le persone per convertirli poi trasformano il proselitismo in un processo incessante di radicalizzazione”, spiega una fonte dell’antiterrorismo di Brescia al Foglio. “Non reclutano mujaheddin da mandare in Siria, ma come hanno affermato in alcune conversazioni intercettate in altri centri culturali affini al loro movimento si limitano a caricare la molla dell’integralismo”.
Nella provincia della Leonessa, ci sono mille sguardi puntati e riflettori sempre accesi per tenere sotto controllo il processo di radicalizzazione dei musulmani. Perché è da qui, o meglio da Vobarno, che partì nel 2012 dopo essere stato arrestato perché sospettato di terrorismo e poi liberato Anas Al Aboubi, nome di battaglia, Anas Al Italy: l’ex rapper marocchino cresciuto in Italia e diventato foreign fighter nel 2012 per andare in Siria. Aprendo un varco per coloro che lo hanno seguito; diventando un simbolo della guerra santa all’occidente in cui era cresciuto. Durante il suo maldestro percorso di radicalizzazione fai-da-te, nessuno lo prendeva troppo sul serio e venne individuato solamente perché nella sua foga islamista chiese il permesso alla questura di organizzare una manifestazione per bruciare una bandiera israeliana. Scarcerato nonostante i suoi collegamenti con i gruppi jihadisti in Europa.
“Ridevano tutti quando segnalavamo che andava al parco ad addestrarsi, a fare esercizi in mimetica”, hanno raccontato al Foglio alcuni analisti della Digos. Ed è pensando al suo percorso di radicalizzazione fai-date che molti analisti dell’antiterrorismo continuano a temere l’imprevisto e l’imprevedibile. E oltre alle moschee, guardano anche alle discoteche dove molti stranieri di seconda generazione vanno a ballare e a sballare. Perché c’è sempre un punto di rottura nel percorso di integrazione fra i giovani di fede musulmana, che fa scattare la molla per voltare le spalle all’incertezza, alla complessità esistenziale di un’integrazione parziale, per tuffarsi nel mare nero dell’integralismo. “Sono questi adolescenti quelli che temiamo e seguiamo di più”, ci hanno detto e ribadito a Brescia gli investigatori dell’antiterrorismo. Certo poi ci sono le moschee, i luoghi di culto abusivi, da tenere sorvegliati, ma a giudicare dall’intreccio di indagini, decreti di espulsioni, antenne ritte anche grazie ai musulmani pacifici che segnalano il transito di predicatori wahabiti che vengono a fare proselitismo, il loro compito sembra immane.
Basta guardare quel lungo elenco di centri informali che si moltiplicano, per capire quanto Brescia sia un altro luogo crocevia che ormai è diventato un rompicapo. Perché è difficile avere un quadro nitido dell’islam militante e jihadista, che transita da qui, con connessioni in tutta la provincia, nella bassa bresciana, a Cremona, a Mantova, a Bergamo e su fino a Vicenza. Luoghi che magari agli analisti della Digos paiono pacifici, ma non lo sono altrettanto per gli uomini dei servizi segreti. Ma non ci sono solo i pachistani più radicali da sorvegliare, soprattutto per il transito di predicatori wahabiti, a Brescia. Quelli che destano più timore sono i balcanici perché provengono sempre, come abbiamo già scritto più volte, dalle file della criminalità. E quindi con conoscenze di pratiche militari, con capacità di reperire armi.
Alcuni frequentano un altro centro di preghiera, anch’esso di orientamento wahabita, a Brescia, dove dopo un blitz dei Ros è stato arrestato un pachistano con molti alias, Ahmed Riaz, espulso dal Viminale nel febbraio del 2015. Che aveva come sodale un kosovaro della provincia di Cremona anche lui espulso per la sua fede jihadista: Resim Kastrati, kosovaro di Cremona. Entrambi volevano andare a combattere in Siria. Come si spiega l’alleanza per usare un eufemismo fra kosovari (nella provincia di Brescia ce ne sono circa 50 supersorvegliati) con i pachistani più radicali? Ce lo spiega Giovanni Giacalone, dell'osservatorio sul terrorismo dell’Ispi, che studia il radicalismo nei Balcani: “E’ plausibile ritenere che i kosovari cui mancano figure rilevanti di riferimento in ambito dottrinario purista in casa propria abbiano deciso di far riferimento a predicatori appartenenti all’ambito ahl al-hadith, scuola di pensiero molto attiva in ambito indo-pachistano, estremamente rigida e letteralista, nel senso che non ammette interpretazioni. Una scuola che dal punto di vista dogmatico si allaccia bene all’ideologia jihadista: i suoi seguaci hanno note capacità propagandistiche, fattore di non poco conto”. Ma se a Brescia è più facile sorvegliare i movimenti degli islamisti, anche grazie alle segnalazioni che vengono dall’interno della comunità musulmana, in provincia, nelle periferie delle periferie è più complicato. Come a Chiari, nella cittadina della bassa bresciana, nota per le quadre medioevali, e dove oggi vivono numerosi albanesi e kosovari arrivati in Italia per lavorare nell’edilizia e c’è una piazza soprannominata Tirana.
I kosovari non hanno un centro culturale islamico di riferimento e si riuniscono in appartamenti privati. “Gruppi piccoli e impenetrabili”, ci hanno detto e ribadito. E infatti a Chiari viveva il muratore Ismail Imishiti, espulso a dicembre, all’interno di un’operazione congiunta tra la procura di Brescia e l’antiterrorismo kosovaro conclusa anche con l’arresto del fratello Samet, in Kosovo. Era lui la mente del gruppo, arrestato per la sua propaganda pro Isis, i contatti nel Califfato, e armi trovate nel suo appartamento. E aveva vissuto per molti anni a Chiari, dove è stato individuato il fratello Ismail, poi espulso. Brescia crocevia, quindi. Perché è da Brescia che è partita anche l’indagine e l’arresto nel luglio scorso del tunisino Lassaad Briki e il pachistano Muhammad Waqas che vivevano a Manerbio. Fermati dalla procura di Milano, con la collaborazione della Digos di Brescia perché ossessionati da un solo tarlo: fare un attentato alla base militare dell’aeronautica di Ghedi.
Aspiranti jihadisti burloni che con falsi account su Twitter si divertivano a postare immagini del Colosseo e del Duomo di Milano in cui fingevano di far circolare minacce per conto dell’Isis e un avvertimento: “Siamo nelle vostre strade, siamo ovunque, stiamo localizzando gli obiettivi, in attesa dell’ora X”. Ma non troppo burloni quando progettavano di far saltare in aria la base militare di Ghedi e già che c’erano anche una stazione dei carabinieri per poi partire per la Siria. Anche se poi tutte le forze dell’ordine impegnate nella prevenzione del terrorismo lo sanno bene che è impossibile fermare la deriva integralista con il carcere perché in un dibattimento processuale è difficile dimostrare la capacità operativa di tutti questi giovani immigrati aspiranti mujaheddin.
E per questo motivo optano per l’espulsione, anche se nel caso del tunisino residente a Manerbio, secondo l’accusa, c’era la traccia di un passaggio in Tunisia dove sarebbe entrato in contatto con il gruppo jihadista che ha commesso la strage di Sousse. Intorno alla Leonessa, un passato ormai alle spalle di capitale industriale della Lombardia, crescono moschee non moschee, imam non imam, che si allontanano sempre di più dai comuni più affollati per camuffarsi fra capannoni industriali e arrampicarsi nelle valli. In luoghi impensabili, che non possiamo citare per riguardo alle indagini in corso, con modalità di diffusione dell’islamismo che segue percorsi e adotta modalità del tutto nuove. E che suscitano, guardando il lungo elenco dei centri islamici, un angoscioso dilemma che è anche una domanda retorica: si può sorvegliarli tutti?
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