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Il Foglio Rassegna Stampa
12.02.2016 Tutto il non detto sull'Iran nucleare
Analisi di Eugenio Cau

Testata: Il Foglio
Data: 12 febbraio 2016
Pagina: 3
Autore: Eugenio Cau
Titolo: «Tutto quello che ci sfugge dell'Iran dopo l'accordo nucleare»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/02/2016, a pag. 3, con il titolo "Tutto quello che ci sfugge dell'Iran dopo l'accordo nucleare", l'analisi di Eugenio Cau.

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Eugenio Cau

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"Quali armi nucleari?"

A circa un mese dall’“implementation day”, dall’applicazione dell’accordo nucleare tra l’Iran e le potenze occidentali e il conseguente sollevamento delle sanzioni economiche, l’occidente non è in grado di stabilire nessun controllo affidabile sulle capacità nucleari della Repubblica islamica e sulla sua possibilità di ottenere la Bomba. Le polemiche sono iniziate ben prima dell’applicazione dell’accordo, quando si è scoperto che l’Aiea, l’agenzia atomica dell’Onu deputata a controllare il rispetto degli accordi da parte dell’Iran, aveva subappaltato a Teheran l’esecuzione di alcune fasi chiave delle ispezioni negli impianti nucleari iraniani, giungendo all’assurdo di far coincidere controllato e controllore. Questa settimana si sono aggiunte alcune novità a un quadro già preoccupante. L’agenzia d’intelligence privata Stratfor ha pubblicato alcune immagini satellitari dettagliate di uno dei luoghi più contestati del programma militare iraniano, la base di Parchin, pochi chilometri a sud-est di Teheran.

Parchin non è classificata dal regime come un impianto atomico, e per anni gli ayatollah hanno cercato di escluderla da ogni programma di ispezioni, benché ci siano indizi consistenti che fin dai primi anni 2000 il regime abbia usato la base per condurre test su alcuni esplosivi che possono essere usati per produrre l’arma nucleare. Dopo dieci anni di richieste e di polemiche, gli ispettori dell’Aiea sono stati ammessi a Parchin nello scorso settembre sotto l’egida dell’accordo da poco siglato, ma hanno visitato solo alcuni edifici spogli dove hanno rilevato tracce di una dismissione recente di quello che c’era al loro interno, e non sono stati ammessi in altre aree della base, per esempio nelle installazioni sotterranee. Le immagini pubblicate da Stratfor mostrano invece che dal 2010, lungi dall’essere il luogo spoglio visitato dagli ispettori, Parchin è stato il centro di attività frenetica. A partire dal 2012, scrive Stratfor, gli iraniani hanno “ripulito” il sito militare rimuovendo alcuni strati di terreno che avrebbero potuto nascondere delle tracce di attività nucleare e ricoperto ampie zone con il cemento.

Le date sono importanti, perché proprio in quell’anno i talks segreti con gli americani che sarebbero sfociati nel deal iniziavano a entrare nel vivo. A Parchin il regime non si è limitato a eliminare le possibili prove. Le immagini satellitari (riprodotte in questo articolo) mostrano anche che negli ultimi anni Teheran ha lavorato all’espansione del sito militare, costruendo nuovi edifici e soprattutto rafforzando e ampliando le strutture sotterranee del sito – le stessa a cui gli ispettori dell’Aiea non hanno avuto accesso durante le loro visite. L’Iran, ricorda Stratfor, usa spesso delle strutture sotterranee per la costruzione di armi convenzionali, ma vista la storia di esperimenti legati alla Bomba a Parchin non è da escludere un loro utilizzo per scopi nucleari. E’ una prova ulteriore del doppio standard usato da Teheran, che non ha mai smesso di lavorare al suo programma nucleare anche dopo aver iniziato il dialogo con l’America. Ed è una dimostrazione del fatto che l’occidente non è in grado di misurare e controllare adeguatamente la buona fede degli ayatollah.

Lo ha fatto capire piuttosto chiaramente James Clapper, il capo dell’Intelligence nazionale americana che tre giorni fa ha tenuto la sua relazione annuale davanti alla commissione Intelligence del Senato. Nell’ambito di un prospetto non esattamente positivo (“I capi dei servizi americani pensano che il mondo stia più o meno andando all’inferno”, ha titolato Foreign Policy), Clapper ha riconosciuto che l’Iran vede l’accordo come “un modo per eliminare le sanzioni mantenendo al tempo stesso le sue capacità nucleari e l’opzione di espandere la sua infrastruttura nucleare”. Non esattamente l’accordo che garantisce un mondo più sicuro per tutti lodato dal presidente Obama, che aveva promesso meccanismi certi di controllo, quando invece, ha detto Clapper, “non sappiamo se l’Iran deciderà infine di costruire armi nucleari”. Ma se dovesse decidere di farlo, mantiene intatta “la capacità di costruire armi nucleari che possono essere trasportate su missili”, come quello testato a ottobre in violazione delle risoluzioni dell’Onu. Il regime, ha ammesso Clapper, “non ha nessuna difficoltà tecnica insormontabile alla produzione di un’arma nucleare, e il cuore della questione sta tutto nella volontà politica dell’Iran”.

Bisogna fidarsi della “volontà politica” degli ayatollah, dunque, gli stessi che, in vista delle elezioni del 26 febbraio per il Parlamento e per l’Assemblea degli esperti che deve scegliere la prossima Guida suprema, hanno eliminato dalle liste tutti i candidati riformisti. Clapper ha ripetuto uno dei punti centrali del tentativo obamiano di vendere il deal, e cioè che le misure previste hanno allungato da pochi mesi a circa un anno il tempo necessario all’Iran per costruire la Bomba. Durante la stessa udienza, il capo della Cia, John Brennan, ha anche cercato di smentire le preoccupazioni, molto diffuse prima del deal, secondo cui i proventi ottenuti dall’eliminazione della sanzioni sarebbero andati all’attività mai sopita di sostegno del terrorismo internazionale. I finanziamenti andati alle Forze Quds “non sono molti”, ha detto Brennan. Ma il finanziamento delle ambizioni egemoniche iraniane si può esprimere in molti modi. Mercoledì il ministero della Difesa iraniano ha confermato l’acquisto del sistema missilistico russo S-300, operazione che ha preoccupato gli analisti perché renderebbe le eventuali strutture nucleari iraniane virtualmente invulnerabili da un attacco aereo, e annunciato di aver firmato un contratto per l’acquisto di nuovi jet da guerra Sukhoi-30, sempre di produzione russa.

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