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Shalom Rassegna Stampa
08.02.2016 Ebrei di Libia: le responsabilità britanniche e la fuga dai pogrom
Analisi di David Meghnagi

Testata: Shalom
Data: 08 febbraio 2016
Pagina: 24
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Gli ebrei di Libia tra memoria e storia»

Riprendiamo da SHALOM di gennaio 2016, a pag. 24, con il titolo "Gli ebrei di Libia tra memoria e storia", l'analisi di David Meghnagi.

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David Meghnagi

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La sinagoga di Zawia, a Tripoli, dopo il pogrom del 1945

Nella memoria degli ebrei di Tripoli, il pogrom del ’45, fu vissuto come un tradimento delle autorità britanniche. L’intervento dopo tre giorni, quando il peggio era accaduto e la folla pogromista era stata respinta alle porte del quartiere ebraico della città, non poteva essere un caso. Ben altra sarebbe stata la reazione delle truppe britanniche, se a essere colpiti fossero stati i soldati britannici. I notabili della comunità, angosciati per quel che stava accadendo, avevano ripetutamente sollecitato l’intervento in forze delle autorità per por fine ai massacri. Inoltre i soldati della futura Brigata ebraica, che in seguito sarebbero sbarcati in Italia, avevano ricevuto l’ordine di non uscire dalle caserme. Il pregiudizio antiebraico diffuso tra molti ufficiali e soldati britannici, unito all’ostilità esplicita dei red fez, poteva spiegare solo in parte il problema. La risposta che s’impose per molti dirigenti ebrei, era che gli inglesi avessero fatto cinicamente ricorso a una politica di divide et impera.

Poiché la Libia aspirava all’indipendenza, il modo migliore per ritardarla, era dimostrare che il paese non era maturo. Che a farne le spese fossero gli ebrei, poco importava, tanto più che agli occhi dei britannici, le rivendicazioni nazionali dell’Yshuv rischiavano di mettere a repentaglio l’intero loro sistema di dominio nella regione. Il guaio è che l’argomentazione guardava al problema con occhi puramente “occidentali”, che aveva come riferimento una “razionalità politica strumentale”. Pensare che il pogrom fosse una conseguenza diretta delle macchinazioni britanniche nel Vicino Oriente e a quanto vi accadeva, impediva in realtà di cogliere la profondità dell’ostilità che si era accumulata lungo l’arco di due secoli nella società araba nei confronti delle aspirazioni ebraiche all’uguaglianza e alla libertà. Non essendo maturati dall’interno della società che nell’arco di un secolo aveva visto tre successive dominazioni straniere, di cui due europee, i cambiamenti intervenuti nello statuto degli ebrei rispetto alla maggioranza islamica, erano visti con ostilità crescente, e considerati come l’esito di un complotto finalizzato ad assoggettare la società islamica al mondo occidentale.

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Profughi ebrei libici sbarcano a Haifa, in Israele

L’idea che gli ebrei fossero sfuggiti grazie a questi cambiamenti storici alla condizione d’inferiorità giuridica e teologica per loro prevista nell’assetto tradizionale della società islamica, li trasformava, loro malgrado, in un capro espiatorio ideale per tutti i mali della società. In questa logica perversa l’aspirazione ebraica alla libertà diventava la “colpa” più grave. L’odio contro la dominazione straniera, si saldava con l’odio contro gli ebrei e contro la democrazia. In questa luce la fuga in massa degli ebrei dal mondo arabo appare come l’espressione violenta del rifiuto dell’idea stessa che gli ebrei potessero vivere da liberi e uguali nelle società che sarebbero nate dalla fine del dominio coloniale. Non volendo accettare gli ebrei come uguali, la società araba li espelleva dal suo interno. Chiamati ad attingere nel profondo della loro resilienza per non andare a pezzi, 850 mila profughi ebrei dal mondo arabo hanno dovuto vivere l’esilio più amaro come se appartenesse loro soltanto. In un impeto di orgoglio e di vitalità hanno saputo cantare la perdita di un intero mondo come fosse un grande riscatto.

La vita nelle baracche e nelle tende, come un grande miracolo. Con la Torah in mano gli ebrei dello Yemen, dopo avere attraversato a piedi il deserto, salirono sugli aerei come fossero le aquile cantate dai profeti. Nelle navi che salpavano da Tripoli, si rinnovava il miracolo dell’esodo. Intonando la “Cantica del Mare”, si rendeva il futuro meno incerto, e il mare amico. La vita dura nelle periferie parigine come l’inizio di un nuovo mondo, sino a quando i figli di coloro che li avevano perseguitati, non hanno cominciato a rendere loro la vita impossibile nelle periferie in cui avevano creduto di trovare un rifugio, lasciandosi dietro per sempre i ricordi di un passato doloroso. Uno sforzo di sublimazione unico, figlio di una grande visione del mondo, che ha permesso di sognare e immaginare un futuro diverso e migliore, che è stato purtroppo reso più difficile per il ritardo con cui la classe politica israeliana e le leadership della diaspora hanno preso coscienza di un problema che non era solo umanitario, ma anche politico e culturale. Una risposta unica contro i luoghi comuni che avvolgono il dibattito politico sul vicino oriente.

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