Riprendiamo dall' ESPRESSO di oggi, 05/02/2016, a pag. 97, con il titolo "Checov nel kibbutz", la recensione di Wlodek Goldkorn.
Wlodek Goldkorn
Amos Oz
Amos Oz aveva quindici anni quando abbandonò la casa paterna e l'ambiente degli intellettuali di destra di Gerusalemme per andare a vivere in un kibbutz e far parte di una collettività socialista. Voltando le spalle al passato cambiò il cognome dal diasporico Klausner in Oz. In ebraico Oz significa "forza". Ora, Feltrinelli esce, nella precisa e avvincente traduzione di Elena Loewenthal, con il romanzo d'esordio del grande scrittore, "Altrove, forse" (pp. 346, 17), pubblicato in originale nel 1966, e ambientato, appunto in un kibbutz.
La copertina
Per chi ami l'autore di capolavori come "Michael mio", "Giuda","Una storia di amore e di tcnchra","Altrove, forse" è una lettura indispensabile. Il libro ha un imprinting che ritroviamo in tutti i successivi testi di Oz, ma con meno inibizioni e maggiore ingenuità. Anzitutto c'è lo sguardo, ottocentesco, da scrittore russo; l'autore è il deus ex machina della trama, e il ruolo lo diverte. La trama riguarda la vita del kibbutz, compresa la missione storica, anzi metastorica (costruire un ebreo nuovo, comunista, soldato e agricoltore), e la presenza minacciosa del nemico, oltre il confine siriano; assomiglia alla vita di un villaggio qualunque: amori, pettegolezzi, vecchiaia, morte, invidia, sogni. E molta infelicità.
Oz, in tutti i suoi libri, ha cercato di dimostrare di essere il più autentico erede di Cechov, un autore che non ha mai scritto un romanzo: i veri drammi sono dati dalle piccole emozioni, non dalla grande Storia. In "Altrove, forse" Oz è più cechoviano che mai.
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