Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/01/2016, a pag. 1-7, con il titolo "Sulle montagne della Tunisia gli ex ragazzi della rivoluzione adesso sognano il Califfato", l'analisi di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
Nella sera di Tunisi osservo scorrere il tempo che precede il coprifuoco. Ecco: mancano pochi minuti. Avenue Bourghiba è già vuota, alcuni ragazzi in ritardo corrono, lanciandosi richiami. Gatti sciamano tranquilli, padroni di una città intera.
Solo un vecchio mendicante, i piedi nudi, è rimasto seduto in un’aiuola. Tiene in mano un pezzo di pane e parla, come recitando una infinita preghiera. Si fermano due agenti, cercano di convincerlo ad alzarsi. Lui continua nella sua cantilena. Lo lasciano lì, nel buio. Uno di loro, prima di andarsene, gli accarezza il capo.
Come era diverso il coprifuoco cinque anni fa, ai tempi della Rivoluzione. Vibrava di tensione e di rabbia, risuonava di voci, di leggende, di spari. Attendevi l’alba per vedere se il Mondo Nuovo era finalmente nato o dovevi ancora lottare. Ogni ora era come l’ultimo minuto del Tempo. Oggi, dopo una fiammata di ira e di saccheggi, la notte scorre vuota, inutile. Siamo diventati vecchi in cinque anni, io e loro, e con noi sono invecchiate le parole. Questi ragazzi si preparavano a vivere cinque anni fa in una effimera primavera dei popoli, partivano con le loro barche di cartapesta, lottavano con le pietre. Non sono andati da nessuna parte. Ogni tanto, come nei giorni scorsi, riaffiora solo un ricordo confuso di quella loro superba turbolenza. E allora ci chiediamo: ma in fondo cosa volevano?
I miei amici di cinque anni fa sono invecchiati, i volti emaciati, l’aria ribalda scomparsa. Il tempo è davvero mago, compie operazioni inverosimili, miracoli alla rovescia. Non un mago, dunque, semmai un angelo sadico, un demolitore. A Tunisi è difficile capire. Qui i politicanti incombono, hanno ripreso la mano. Dall’altra sponda del mare abbiamo sprecato cinque anni a intervistare blogger e a lodare costituzioni. Pregevoli pezzi di carta. L’accordo, tutto potere soldi e poltrone, tra i laici e l’Islam conservatore che con i nostri miopi occhi abbiamo lodato come miracolo fecondatore, qui è maledetto come subdolo tradimento.
Ai confini con l’Algeria
Allora il luogo giusto per capire è a trecento chilometri e si chiama Kasserine, ai confini con l’Algeria. Dove la disoccupazione è al quaranta per cento, hanno assaltato banche e uffici pubblici e i muri della città un mattino di tre giorni fa erano fitti di scritte che inneggiavano a Daesh, il Califfato. Dove un altro ragazzo si è ucciso per protestare contro lo scandalo della povertà, come cinque anni fa, e fu la Rivoluzione. A Kasserine rivoluzione e jihad sono, fisicamente, fianco a fianco. Le montagne sono già Califfato. Vado a Kasserine perché, forse tra qualche mese, diventerà un altro luogo che la sharia proibisce a noi occidentali. O perché spero, in fondo, di riconoscere invece giovani ribelli, una nuova generazione. Riconoscerne la voce anche se li sentirò ripetere con la rabbia che nasce dal vivere nel mondo che noi abbiamo fatto per loro: in cinque anni nulla è cambiato!
Lasciamo Tunisi grigia sotto i cieli leggeri del suo inverno. In questo piccolo Paese che percorri tutto in un giorno si manifestano davvero tutte le forze del nostro tempo: islamismo e democrazia, laicità e lotta di classe. Perché in Tunisia le classi ci sono ancora: lumpenproletariat e «pescecani», contadini senza terra e intellettuali senza libri. Dopo Kairouan cambia il colore del paesaggio degli uomini delle cose. Il giallo della sabbia prende il posto del verde, anche gli ulivi si fanno storpi, fino ad arrendersi e a morire sul terreno che il vento sembra aver raschiato fino all’osso. Anche loro si fermano di fronte a una invisibile frontiera.
Agli ingressi delle città i poliziotti lasciano il posto a infreddoliti soldati. Kasserine appare come una manciata di pietre gettate nella pianura. Sopra incombono le cime del monte Chaambi, rifugio inviolato degli islamisti, il jihadistan della Tunisia. Adunati negli infiniti, lerci caffè gli uomini spendono tesori di pazienza, alcune bandiere penzolano come lembi di pelle lungo l’asta. A Kasserine tutto è misero, impolverato.
I monti presso Kasserine
Davanti al palazzetto del governatore, già aggrappato alla montagna dei jihadisti, incontro la rivoluzione: ragazze bellissime con gli occhi neri e brillanti, nell’arcata ossuta e levigata, come da noi vedi in Sardegna. Stanno immobili, silenziose, accusatrici; i ragazzi, esili come giunchi, compilano le domande. Perché il governo ha annunciato frettolosamente migliaia di posti di lavoro, un espediente per calmare la rabbia e dividere i manifestanti. E loro tentano un’altra volta, l’ennesima, forse l’ultima. Mi mostrano i documenti come se fossi io a poter approvare... il diploma o la laurea, la copia della carta di identità e la domanda: sono laureato in farmacia ma accetto anche lavori manuali… sono diplomato in commercio e amministrazione, disoccupato…
Sono i reduci, gli effimeri vincitori di cinque anni fa: dateci lavoro, lavoro… a Tunisi si preoccupano di far abrogare la legge 52 sul consumo di cannabis o l’articolo che criminalizza l’omosessualità… e qui a Kasserine cosa mangiamo? Dove sono finiti i miliardi donati dall’Unione europea per lo sviluppo? Sapete che i pochi che hanno un lavoro hanno un salario di 65 euro al mese? Dicono che quelli che hanno messo a fuoco la città erano pagati dai terroristi, vedi terroristi qui? Forse vogliono che lo diventiamo? La paura di ritrovare la sua gabbia e di rientrarvi sconfitto brucia in gola a questa ragazza, cerca un aiuto che nessuno può darle, le sue parole di rabbia sono oro zecchino, le nostre moneta falsa. «Sei triste», mi dice. «Anche tu non hai un’aria allegra», scherzo. Ho capito che le sue passioni sono incomunicabili: un destino ci separa.
Ora è il momento di andare alla cité Ezoor, il quartiere dei contrabbandieri. E dei salafiti. Il proteo jihadista, qui come nel sahel si mescola alla delinquenza, inietta gocce di veleno nell’economia parallela, nel mondo opaco del traffico. Per arrivare alla cité passi attraverso il mercato del «frip». I banchi sono allungati sulle rotaie ormai semisepolte della vecchia ferrovia che portava i fosfati delle miniere. Al mercato si vendono vestiti donati dalle Associazioni caritative, soprattutto americane. Una venditrice ostinata mi insegue decisa a vendermi un giubbotto di pelle imbottito per cinque dinari, due euro. Il grido di un bambino, il rimprovero di una vecchia, il belato di un montone che stanno sgozzando in piena strada, risuona a Ezoor in un sospeso silenzio.
Nel «quartiere dei fiori» non ci sono piante né aiuole. Ci sono i contrabbandieri che lavorano con l’Algeria dall’altra parte delle montagne: benzina e droga, armi e mercanzie, tutto passa sui pick up e in lunghi convogli di muli. «Dove vai tu, che cerchi?», mi chiedono appena metto piede nella prima strada del quartiere. Stanno scaricando motorini da un camioncino targato «Alessandria». Entro nel «bar dei martiri». Sì, perché in questa cité di Kasserine la rivoluzione del 2011 ha contato la maggioranza delle sue vittime. Fu questa la vera fanteria rivoluzionaria. Al bar dei martiri servono un tè squisito addolcito con una fetta di mandarino, e ci sono solo uomini dagli occhi duri. Sul muro di fronte una scritta avverte: «Traditori di Tunisi benvenuti a Kasserine».
Il pastore decapitato
Al bar dei martiri ti propongono affari, andare in Algeria stanotte, per esempio, senza visto… ho un carico da consegnare… E ti raccontano storie tremende. E vere. Come quella di un pastorello che girava su per questi monti con il suo gregge: scompare, i parenti implorano la polizia di andarlo a cercare, ma gli agenti rifiutano: sulla montagna ci sono i jihadisti. Allora il padre e il fratello salgono soli, percorrono i burroni, esplorano le grotte… trovano la testa, lo avevano decapitato. Perché il pastorello prendeva qualche dinaro dai poliziotti e li informava quando incontrava gli islamisti. Questi si erano accorti che l’elicottero li mitragliava, puntuale, preciso, dopo ogni incontro con quel bambino… Lo hanno punito secondo gli hudud, le pene previste dal Corano, decapitato. Aspetta, non è finita: i parenti non sapevano dove mettere la testa prima del funerale… l’hanno tenuta nel frigorifero di casa.
Mi presentano un barbuto, in jalabiya, piccolo, ti scruta con occhi sottili: «Abu Hayad l’emiro di Tunisia ha annunciato dalla Libia: tunisini, preparatevi che l’apocalisse sta arrivando… Qui non abbiamo paura dell’apocalisse». Torno davanti al palazzo del governatore. Seduto al sole osservo come tutto è cambiato dal mattino. I diplomati e i laureati sono scomparsi, ci sono giovani nuovi, fanno gruppo, facce decise, gridano, alzano i pugni. Li guidano due più arditi, uno ha una gran barba assira. Le lingue di questi capipopolo sono affilate come i coltelli dei macellai. Forse sto osservando la nascita di una nuova, terribile rivoluzione.
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