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Il celeste scolaro Torino, dove «le vie si prolungano come squilli». È un verso di Umberto Saba, un’ulteriore liaison fra Trieste e la Mole, come la fu linea area che faceva scalo al Valentino, come il ricordo che Bruno Vasari era solito ricamare sul cardellino del poeta che nasceva nel 1883, lo stesso anno di Gozzano. A rinnovare il gemellaggio fra le due capitali è Il celeste scolaro di Emilio Jona (Neri Pozza, pp. 222, €16), biellese d’origine, torinese d’adozione, scrittore, poeta, etnomusicologo, dalla stagione di «Cantacronache» alla cura dei Canti popolari del Piemonte di Costantino Nigra. L’anima ora evocata, mescolando finzione e verità, è Federico Almansi, che, adolescente, ispirerà alcuni versi di Mediterranee, in particolare «Tre poesie a Telemaco»: «Odo, se veglio la notte, lamenti / del ragazzo nel sonno; odo nel sonno / sussulti d’anime in pena. E al risveglio / ogni volto s’oscura». Federico è figlio di un antiquario come Saba, Emanuele, libraio in Padova, studi universitari a Torino, compagno di Antonio Gramsci, ebreo che andava al tempio solo nelle solennità. Sposò una contadina (biellese) sperando di sciogliere un penoso incantesimo del sangue, «sani e giovani cromosomi» che sfarinassero i «dissennati cervelli» degli Almansi. L’esperimento non riuscirà. Federico, egli stesso poeta, patirà la schizofrenia, via via rabbuiandosi. Il padre gli verrà in soccorso la notte del 15 maggio 1952, sparandogli un colpo di Beretta 34. «Mi preoccupava la vecchiaia incombente e la sopravvivenza di nostro figlio, solo e malato, quando noi fossimo morti», spiegherà al giudice. Se non che la vittima predestinata, svegliatasi all’improvviso, devierà la traiettoria del proiettile, rinnovando la memoria veterotestamentaria di Abramo e Isacco. Nel ’55 un’amnistia sottrarrà Emanuele Almansi a San Vittore. Federico, che mai nutrirà verso il padre sentimenti ostili, sarà stroncato da un ictus nel 1978. Si concludeva così la sua «stagione all’inferno» («il primo delirio» di Rimbaud che si era provato a tradurre con Emilio Jona). Finalmente il dispotico Dio del Vecchio Testamento gli consentiva di godere «la calda vita» sino ad allora solo contemplata, desiderata. Bruno Quaranta - La Stampa |
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