Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/01/2016, a pag. 1-4, con il titolo "Il Califfo contro il Sultano", l'editoriale di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
Recep Tayyip Erdogan, Abu Bakr Al Baghdadi
Il Califfo contro il Sultano: che duello arcaico e sanguinario forse si prepara tra due alleati delusi e vendicativi! Ma sarà combattuto in un fondo melmoso di intrighi e lambiccatissime musulmane apparenze. Un’altra guerra da aggiungere alle tante che, contemporaneamente, come in una infinita serie di scatole cinesi, tribolano le terre tra il Mediterraneo e la via della seta.
Erdogan con i suoi modi da domatore e retore infatuato, capace di infuriare a freddo, cosa pericolosissima. Restauratore di islamiche rigidità, pose da santo castigamatti, sogna di lustrare neomeraviglie ottomane, ma deve pagar l’amaro e faticoso scotto di coniugare intrighi e ambizioni con limiti di una dittatura di Lilliput.
E l’altro, Abu Bakr, micidiale capo di milizie forsennate e di estensione quasi planetaria, figura archetipa di un totalitarismo truculento, capace di resistere a tutti gli acidi. Ma, nei modi, sfuggente, elusivo, maschera formosa e vuota di autentico re nascosto, secondo la antica vena dei califfi. Che comparivano sempre oscurati da una tenda o da un velo, arcana imperii; e lui distilla apparizioni e prediche dietro la discrezione del braccio divino sulla terra. Il Potere è dio, e deve restare terribile mistero.
Se la matrice dell’attentato di Istanbul sarà provata allora vuol dire che tra i due il tempo delle egoistiche convergenze è finito. Il caos del Vicino Oriente si complica di un altro tassello, ciò che è la vera strategia del califfato.
O semplicemente un gioco delle parti ancor più sottile: e pericoloso. Ipotesi da non scartare nei miraggi della politica nella terra tra i due fiumi, dove niente è esattamente ciò che appare. E tra Turchia e califfato l’ambiguità e il doppio gioco spuntano come la gramigna.
Al Baghdadi, l’invisibile
Pochi i punti fermi. Per esempio che il Califfo non esisterebbe senza il Sultano. Daesh sarebbe morto in culla, ridotto a patetica utopia di una banda siro-irachena imbrigliata nella guerra civile contro Assad se non avesse conservato sempre una frontiera spalancata: quella turca appunto.
Una vena in cui scorreva (o scorre?) tutto: reclute della internazionale islamica (i 35 mila volontari che sarebbero stati fermati alla frontiera… annuncio dato proprio poco prima dell’attentato, ma quanti sono invece passati in questi anni?), armi e munizioni, denaro, apostoli e manovali del terrore planetario, petrolio.
Putin in una cosa aveva ragione nell’infamare come impudente mentitore Erdogan: «oggettivamente», vecchio avverbio marxista, Ankara è l’alleato del califfato. Si potrebbe dire l’unico. I jihadisti sono assediati circondati soffocati da una geografia di frontiere ostili: il Libano degli Hezbollah, la Giordania, l’Iraq sciita, i bellicosi curdi. Quanto basta per avvicinare di molti palmi il collo degli uomini di Daesh al filo di una mannaia punitrice.
Ma... Ma c’è il Nord, la lunga frontiera turca minuziosamente presidiata e contemporaneamente aperta, l’autostrada del jihad dove le colonne di camion con «aiuti umanitari» per i siriani passano rigorosamente blindate, incrociando le autocisterne con il petrolio discount tratto dai pozzi dello stato di Dio. Minuti aneddoti che non si bisbigliano sospetti: Daesh davvero utilizza la Turchia come un hotel…
I sanguinari salafiti di oltre frontiera esposti alle occhiate fredde di Erdogan appaiono (apparivano?) utilissimi: per tenere a bada i curdi, per esempio, dissidenti inveleniti a cui la esplosione di Stati come Siria e Iraq, ha fatto crescere le tentazioni statuali e autonomiste. Per far saltare anche quella prigione dei popoli che considerano la Turchia…
Ma il califfato è ascari difficile da maneggiare, capace di essiccare ogni progetto che lo usi come strumento. È una delle sue micidiali qualità. L’antico burattinaio di Daesh, l’Arabia Saudita, ne ha fatto le spese. Contava di combattere, con poca spesa, una guerra per procura contro sciiti di varia caratura e famiglia, Bashar e l’Iran, per scombinarli a favore della sharia wahhabita di cui detiene il marchio e l’invenzione. Ma la schiuma mistico-criminaloide aveva piani imprevedibili e più ambiziosi di quelli che i dinasti di Riad potessero ritagliare per loro: nientemeno che il califfato universale e il capovolgimento islamico della Storia. E così ad esser presi nella ragna rischiano di esser proprio loro, i petrosobillatori di tutti i santi estremismi…
Verrebbe da pensare che Erdogan ha commesso lo stesso errore: ha sottovalutato i giannizzeri di Mosul e di Raqqa. In fondo, se lo scopo del califfato è di creare lo Stato che annienterà tutti gli Stati, perché mai dovrebbe lasciare spazio proprio alla Turchia: musulmana ma apostata, involta di sacrilegio e corrottissima, secondo gli schemi spicci degli zeloti di Mosul?
I protettori traditi
Resta da spiegare perché in un momento in cui, seppure con grande lentezza, le planetarie Coalizioni anti-Daesh sembrano accelerare le operazioni, il califfato cerchi di moltiplicare i suoi nemici, infilandoci a forza anche il vicino da cui dipende con maggior evidenza la sua sopravvivenza. E qui forse entra in gioco il pavlovismo totalitario: ovvero la necessità di procedere a una guerra iperbolica, avvicinata al suo concetto assoluto.
Anziché esser proporzionate al disegno politico, allargare e consolidare lo stato islamico, indebolire i vicini, guadagnar tempo, la intensità e la portata del mezzo, la guerra, non hanno che una misura, essere più grandi di ciò che cerca di essere più grande di esse. Il mezzo, mai esposto a inedia, si distacca dal fine e acquista una vita propria, dallo sviluppo indeterminato, come se fosse un fine a sé.
In fondo il califfato non può avere alleati o complici, se non temporanei: il suo mondo può esser popolato da un’unica categoria, nemici da purificare annientandoli con l’atletismo di una sanguinaria penitenza.
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