Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/01/2016, a pag. 27, con il titolo "Mieli: la storia che mancava sulla rimozione dell'Olocausto", la recensione di Fulvia Caprara.
Fulvia Caprara, Paolo Mieli
Alzare il velo su un passato prossimo frettolosamente archiviato, scoprire la verità, sottoporre i criminali al giudizio che meritano. Tutto questo in contrasto con l’aria del tempo, nella Germania del 1958, dove nessuno desidera ripensare ai giorni del regime Nazionalsocialista, all’Olocausto, alla guerra e alle sue terribili conseguenze. Diretto da Giulio Ricciarelli, di nascita milanese (classe 1965) e di formazione tedesca, Il labirinto del silenzio ricostruisce l’avventura coraggiosa del giovane Pubblico ministero Johann Radmann (Alexander Fehling) che, sfidando colpe sopite e realtà insabbiate, decide di indagare su ciò che era veramente accaduto nei lager e sulle responsabilità di chi li aveva guidati, aprendo le porte del fondamentale processo di Francoforte: «Dopo la fine della seconda Guerra Mondiale - spiega il regista - si è tralasciato per molti anni di discuterne in modo esauriente, non si parlava né dei colpevoli né delle vittime, ovviamente c’erano persone che sapevano di Auschwitz, ma la maggior parte dei tedeschi ne ignorava l’esistenza».
La locandina
Per questo, secondo lo storico e giornalista Paolo Mieli, Il labirinto del silenzio è un film «importantissimo», non semplicemente sull’Olocausto, «ma sulla rimozione, un processo da cui nessun Paese è estraneo». Scelta dalla Germania per partecipare alla corsa agli Oscar 2016, nei cinema dal 14 con Good Films (nello stesso giorno, dall’America, arriveranno i nomi dei cinque candidati al miglior film in lingua straniera), l’opera di Ricciarelli affronta, prosegue Mieli, un vero e proprio «tabù storiografico».
Con l’entrata dei russi ad Auschwitz nel ‘45 «il mondo si rese conto di quello che era successo e iniziò ufficialmente il dopoguerra». Ma gli anni che vennero subito dopo non furono meno tragici dei precedenti. Nel rimodellamento dell’Europa post-bellica succedeva che i confini venissero spostati, che «i tedeschi rimasti nei Paesi che avevano occupato fossero cacciati, che, durante le marce, morissero come mosche, oppure che si ritrovassero nei campi di concentramento, vittime di un terribile contrappasso».
Sulla Germania in ginocchio le due potenze Usa e Urss, «decisero, in modi diversi, di chiudere un occhio. Il processo di Norimberga finì nel ‘46, in tanti la fecero franca e molti dei condannati vennero messi in libertà alla spicciolata. Era iniziata la Guerra Fredda e l’intero Occidente era convinto che una Terza Guerra Mondiale potesse essere imminente». In questo scenario, lo stesso in cui «tanti ebrei continuavano a tacere, per pudore, per dolore, e anche per la vergogna legata agli episodi di forzato collaborazionismo», si apre la storia del film. La Germania è un Paese proteso verso il vitalismo della ricostruzione e del miracolo economico, popolato da ventenni ignari, che non immaginavano, oppure si rifiutavano di accettare la verità dei fatti: «In genere sapevano solo che i padri avevano fatto la guerra e l’avevano persa... L’adesione al nazismo era stata del 100%, eppure tutti dichiaravano di aver preso parte ai riti, ma di non avere colpe... per un ventennio l’intera Germania aveva compiuto un percorso di auto-assoluzione».
Una scena del film
Opporsi a tutto questo fu impresa titanica. Il film, sceneggiato dal regista insieme a Elisabeth Bartel, descrive la solitudine angosciosa del magistrato protagonista, i segreti devastanti nascosti nella sua stessa famiglia, la scoperta che in una normale scuola elementare poteva normalmente insegnare un’ex-guardia di Auschwitz, l’insanabile ferita dell’ex-deportato, padre di due bimbe gemelle, finite nelle mani dell’orco Mengele «il peggior criminale del nazismo che la Germania non riuscì mai a prendere».
Al fianco di Radmann si muovono, sullo schermo, le figure della fidanzata, dei colleghi che, sulle prime, lo sbeffeggiano, delle vittime che accettano di testimoniare, una dopo l’altra, svelando sofferenze atroci, della segretaria, all’inizio critica e riluttante, poi anche lei travolta dalla forza della verità: «Il suo personaggio - osserva Mieli - rappresenta bene il popolo tedesco. Prima diffidente e poi, una volta convinto che le indagini sugli ex-nazisti non erano il frutto di una manovra dell’altra Germania, quella dell’Est, deciso ad andare avanti, senza cedimenti morali». Da allora in poi i processi «furono accompagnati dal più pieno consenso». Nel ruolo cruciale del Pubblico ministero Generale Fritz Bauer recita il grande attore teatrale Gert Voss: «Solo davanti alle prove documentali, Bauer si convince completamente. Se il giovane collega avesse messo in piedi un processo ideologico, fatto di chiacchiere, lui lo avrebbe immediatamente chiuso».
Arrivare, nel 1963, al giudizio di Francoforte, a due anni di distanza dal processo Eichmann che si era svolto a Gerusalemme, fu evento storico basilare, non solo per le pene inflitte, ma per quelle alleviate, dei sopravvissuti: «Per chi aveva subito quei patimenti, non vederli riconosciuti era un dramma aggiuntivo». Tanti erano morti, ma, per chi era rimasto in vita, verificare che ci si comportasse come se le sofferenze subite non fossero mai esistite, era un nuovo, insopportabile affondo. Rimuovere vuol dire proprio questo, allontanare dalla propria coscienza eventi intollerabili: «Rimozioni simili - ricorda Mieli - hanno coinvolto tanti altri Paesi, compreso il nostro. Basta pensare alla lotta al brigantaggio nel Sud o all’argomento foibe, mai affrontato per un cinquantennio». In questo senso «Il labirinto del silenzio» «è più valido di tanti altri film», dove il tema Shoah, pur provocando la commozione del pubblico, non è stato messo esattamente a fuoco.
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