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Shalom Rassegna Stampa
15.12.2015 Storia dimenticata: i pogrom antisemiti in Libia del 1945
Analisi di David Meghnagi

Testata: Shalom
Data: 15 dicembre 2015
Pagina: 22
Autore: David Meghnagi
Titolo: «La memoria dei pogrom antisemiti in Libia nel 1945»

Riprendiamo da SHALOM di dicembre 2015, a pag. 22-23, con il titolo "La memoria dei pogrom antisemiti in Libia nel 1945", l'analisi di David Meghnagi.

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David Meghnagi

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Un'abitazione ebraica devastata nel 1945 a Zuwiya, Libia

"Segna con una traccia rossa la prima pagina del libro, perché la ferita al suo inizio è invisibile” - Edmond Jabes

Parlare del pogrom del novembre ‘45 a Tripoli era un tabù. Tutti sapevano, nessuno parlava. Avrò avuto tre o quattro anni quando fingevo di essere occupato con i miei giochi per meglio ascoltare e capire il perché dei funerali al buio, con il coprifuoco, lungo un percorso protetto da un cordone di truppe armate che non erano intervenute prima, impedendo ora ai parenti di poter seguire i loro cari verso l’ultima dimora. Tutto era avvolto nel mistero: il ricordo vivo della tragedia, come quello della resistenza e del grande esodo che ha coinvolto qualche anno dopo la quasi totalità degli ebrei di Libia. Quando mia madre ne parlava con le amiche, aguzzavo le orecchie. I più anziani usavano mezzi termini.

Avevo appreso a riconoscere il significato di certe perifrasi, di certe allusioni, nelle conversazioni fra i più anziani, quando mio padre parlava della morte di oltre seicento persone della comunità ebraica di Bengasi (un quarto del totale) nel campo di Giado, internati per volontà di Mussolini, o quando mia madre con le amiche raccontava il modo in cui con me in grembo riuscì a passare per la folla pogromista per raggiungere casa. I racconti su Giado e i ricordi del pogrom, da me segretamente carpiti, erano opprimenti.

Per alleviare l’angoscia cercavo le tracce di un’altra storia, dell’autodifesa ebraica che nel ’45 respinse la folla omicida all’ingresso della Hara (il quartiere ebraico) e nel ’48 arrivò preparata al nuovo tragico appuntamento. Al pensiero di quel che era accaduto, e avrebbe potuto ripetersi, da ragazzo cercavo con la fantasia di contrapporne altri, di segno opposto, che alleviassero l’angoscia. Il pogrom del ’45 giunse inatteso, in modo feroce e inaspettato dopo la liberazione, quando la speranza era tornata a pulsare e le attese di una vita migliore si erano fatte più vive e per il Paese intero si profilava la possibilità di un futuro diverso e indipendente.

Per gli ebrei di Tripoli fu una frattura nel tempo e nello spazio. Dopo di allora nel rapporto fra ebrei e arabi, nulla fu come prima. Il pogrom era stato meticolosamente preparato dai nazionalisti, segnando di gesso le case e i negozi degli ebrei. Le truppe britanniche furono colte di sorpresa e intervennero solo al terzo giorno per riportare l’ordine, quando il peggio era già accaduto. Le persecuzioni fasciste erano avvenute in tempo di guerra. La frequentazione col dolore e con la persecuzione, le aveva “messe in conto”. Nella percezione collettiva, che ne coglieva solo in parte la logica più profonda, furono erroneamente considerate come “una conseguenza” della guerra, anche se in realtà preludevano a esiti spaventosi, come avvenne purtroppo per la comunità ebraica di Bengasi deportata in massa nel campo d’internamento di Giado, e che sarebbe morta tutta se nel frattempo la guerra in Nord Africa non fosse terminata dopo la vittoria alleata a El Alamein.

Ciò che agli occhi di un osservatore straniero sarebbe apparso come un’azione politicamente suicidaria, che gettava ombre sul futuro del paese e la sua richiesta di sovranità, per il nazionalismo arabo e islamico era un atto di affermazione dell’identità, la messa in discussione di un intero ordine di valori e gerarchie che la riconquista turca prima, e la dominazione italiana poi, avevano messo in discussione. Scatenare la violenza distruttiva contro una minoranza indifesa, era in questa logica perversa un atto di “sfida” al potere straniero, un modo per affermare il “diritto” di disporre arbitrariamente e liberamente di noi ebrei, “colpevoli” di avere osato mettere in discussione il nostro status “di dhimmi”. Ben altre sarebbero state, le conseguenze, se la sollevazione si fosse rivolta contro i soldati britannici di stanza nel Paese, intervenuti solo tre giorni dopo lo spaventoso massacro.

Dopo la farsa delle cerimonie di riconciliazione arrivarono le intimidazioni per evitare che la mancata adesione della minoranza ebraica al movimento indipendentista libico potesse offrire il pretesto alla potenza mandataria britannica di ritardare l’indipendenza del paese, oppure, come chiedevano le organizzazioni ebraiche americane, costituire la base per la richiesta di precise garanzie, a tutela delle minoranze, da incorporare nella Costituzione del nuovo Stato.

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Una famiglia di ebrei tripolini prima di fuggire dalla Libia

La tensione raggiunse di nuovo l’apice tre anni dopo, con l’afflusso di centinaia e poi di migliaia di arabi dal Magreb, diretti verso est, per unirsi agli eserciti arabi nella guerra contro il nascente Stato di Israele. Questa volta la popolazione ebraica non fu colta di sorpresa. Armati di olio bollente rovesciato dall’alto delle mura su chi cercava di forzare l’ingresso nel quartiere ebraico, di coltelli e pietre, alcune pistole e bombe, gruppi di ragazzi e ragazze, addestrati clandestinamente in vista del nuovo confronto, guidata di una ragazza al grido di Giat al Haganah (la Haganah è arrivata) affrontarono apertamente gli aggressori. Respinta all’ingresso del quartiere ebraico, la folla degli aggressori, si rifece con le famiglie ebraiche dei quartieri nuovi della città. A differenza che nel ’45, l’intervento dell’esercito fu quasi immediato. L’ordine fu ristabilito, ma la convivenza fra le due comunità si era definitivamente rotta. Un fiume di gente disperata si era riversato a Tripoli da ogni luogo e non voleva più fare ritorno alle proprie case. Gli sfollati dormivano per strada, nei vicoli e nei cortili delle sinagoghe. Per chi non aveva più nemmeno un tetto per dormire, la nascita di Israele era il sogno di un riscatto.

Anche chi non la avesse coltivata col pensiero, l’esperienza più che bimillenaria degli ebrei in Libia volgeva al termine. Essendo ormai chiaro che non ci sarebbe stato posto per gli ebrei nel futuro stato arabo, con un sussulto di orgoglio e di riscatto, l’esilio fu trasformato in esodo, il dolore e la sofferenza furono sublimati. Il dolore era il segno dei tempi, il parto di un’era nuova, il tempo messianico con le sue doglie era alle porte (Chevlé Mashiach). La sofferenza era il prezzo per un mondo migliore e giusto, dove un ebreo potesse vivere liberamente. Le paure più antiche e la speranza si erano incontrate, un’attesa spasmodica si era impadronita dei cuori. Nei canti s’invocava Dio perché il mare fosse clemente con chi sfidava con mezzi di fortuna il mare per raggiungere la terra promessa. Nelle viuzze strapiene di rifugiati e nelle case si intonava “Mahla hassafra ba’d al ‘id amcia l’bhar ic’nna… Come è bella la partenza dopo le festività [di Pesach e Shavuoth), quando il mare è calmo..." Per molti i beni più preziosi erano costituiti da una coperta e qualche pentola di alluminio, un po’ d’olio messo da parte, un micio o un cagnolino da cui non ci si voleva separare, il libro di preghiere e dei semi di gerani e di zafferano da piantare nella terra dei padri. Il profumo che ancora si respira nelle cittadine abitate da ebrei di origine libica vicino a Lod e altrove, ha contribuito a rendere meno lancinante la separazione dai luoghi di nascita, più familiari i luoghi mitici del ritorno, più contenibile lo scarto tra le promesse di riscatto e la dura realtà della vita negli anni Cinquanta e Sessanta in Israele, nelle tendopoli di Beit Lid, di Tel Litvinski, di Mahanè Israel, e nelle ma’abarot della nascente cittadina di Bat Yam. Serve oggi, come mezzo secolo fa a profumare il caffè e a benedire l’arrivo dello Shabbat.

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