IC7 - Il commento di Valentino Baldacci
Dal 6 al 12 dicembre 2015
Maurizio Molinari
Maurizio Molinari
Dal prossimo 1° gennaio avremo in Italia il singolare caso del direttore di un quotidiano che applica veramente quella che si dice essere la regola aurea del giornalismo anglosassone - il commento separato dalle notizie - una regola tante volte enunciata quanto assai raramente applicata. Ma forse Maurizio Molinari, chiamato a dirigere a partire dal primo giorno del nuovo anno «La Stampa» di Torino, non segue nemmeno quella regola, quanto un’altra, che il commento (o, se vogliamo, il senso, il significato) deve nascere dalla notizia stessa, non manipolata ma comunicata al lettore in modo che sia chiara la fonte (o le fonti) da cui proviene, e soprattutto rispettando la sua integralità. Probabilmente questo metodo viene a Molinari dalla sua giovanile preparazione storica, però su questo punto bisogna intendersi: Molinari non è, come sono stati altri, uno storico mancato che ha trovato nel giornalismo la via del successo ma sempre portandosi dietro il rimpianto dell’altra possibile carriera. Molinari è invece un giornalista autentico che ha trovato in una severa preparazione storica una delle chiavi del suo successo. Come disse di lui nel 1991 Giovanni Spadolini, «Molinari è giornalista, ma è un giornalista che ama la documentazione, il rigore delle citazioni, la lettura attenta delle fonti».
Se la «Voce repubblicana» è stato il primo quotidiano dove Molinari ha lavorato professionalmente, il contatto con Giovanni Spadolini è passato anche attraverso strade insospettate, come la collaborazione alla «Nuova Antologia», la severa rivista fondata nel 1866 da Francesco Protonotari riprendendo la traccia dell’«Antologia» di Gianpietro Vieusseux, rilevata da Spadolini nel 1980 e da lui diretta fino alla morte. Nel 1993 Molinari curò per la rivista, su incarico di Spadolini, due tavole rotonde, una su «Razzismo, xenofobia, antisemitismo in Europa», pubblicata nel numero di aprile-giugno; e una su «L’accordo fra Israele e palestinesi grande speranza dell’umanità», pubblicata nel fascicolo di ottobre-dicembre. L’importanza delle due tavole rotonde non stava soltanto nel loro contenuto che, come si vede, è attualissimo ancora oggi, ma anche nella qualità degli interlocutori che Molinari riuscì, certamente anche con l’aiuto di Spadolini, a coinvolgere: Norberto Bobbio, François Feitö, Marek Halter, George Mosse, Elie Wiesel nella prima; lo stesso Wiesel, Hanna Siniora, Bernard Lewis, Abraham Yehoshua, Walter Laqueur, Claudio Magris nella seconda, oltre che, naturalmente, lo stesso Spadolini in entrambe.
Esaurito da anni, non è il caso di ristamparlo ? è ancora di grande attualità
Il 1993 fu certamente un anno importante per il ventinovenne Molinari perché in quell’anno pubblicò anche il primo studio scientificamente fondato sul rapporto fra la sinistra italiana e l’ebraismo (La sinistra e gli ebrei in Italia 1967-1993), e quindi fra la sinistra socialista e comunista e lo Stato d’Israele. Ma già due anni prima, nel 1991, aveva pubblicato un altro importante studio sugli ebrei italiani (Ebrei in Italia: un problema di identità – 1870-1938) dove, come nel lavoro precedente, l’insistenza sulla precisazione delle date confermava ciò che di lui diceva Spadolini, che di questo libro scrisse la prefazione. Della sua laurea in Scienze Politiche nel 1989 con Renzo De Felice e di quella in storia nel 1993 con Francesco Cordova entrambe all’Università “La Sapienza” di Roma già è stato scritto, così come dei suoi studi all’Università ebraica di Gerusalemme, quella sul Monte Scopus, dove Spadolini aveva ricevuto la laurea honoris causa.
Dopo l’apprendistato alla «Voce repubblicana» e le pubblicazioni che abbiamo ricordato, venne il salto, la nomina a inviato della «Stampa» da Bruxelles, sede della Comunità europea. Il suo lavoro è così apprezzato che nel 2001 il direttore Marcello Sorgi gli affida la sede più prestigiosa per un corrispondente, quella di New York, che di solito viene considerata il coronamento della carriera e alla quale Molinari arriva trentacinquenne. A New York resta ben tredici anni, un periodo così lungo da influenzare profondamente la sua vita professionale e privata. Il soggiorno newyorkese stimola la sua riflessione su tutto ciò che vede accadere intorno a lui, dal vero centro del mondo. Nascono così moltissimi libri, nel corso di poco più di un decennio: Wall Street nel terzo millennio (2003, con Paolo Mastrolilli), George W. Bush e la missione americana (2004), L’Italia vista dalla CIA 1948-2004 (2005, con Paolo Mastrolilli), Gli ebrei di New York (2007), Cow Boy democratici. Chi sono e in cosa credono il liberal che vogliono conquistare la Casa Bianca e cambiare il mondo (2008), Il paese di Obama. Come è cambiata l’America (2009), Gli italiani di New York (2011), Governo ombra: i documenti segreti degli USA sull’Italia degli anni di piombo (2012), L’aquila e la farfalla. Perché il XXI secolo sarà ancora americano (2013). Praticamente uno all’anno.
La decisione di lasciare New York per andare a fare il corrispondente dal Medio Oriente è una di quelle che possono sorprendere solo coloro che amano la routine oppure sono convinti di sapere ormai tutto, che ormai non c’è più niente da imparare. Ma le sorprese non erano finite. La decisione di aprire un ufficio a Ramallah oltre a quello di Gerusalemme poteva sorprendere ma non significava certamente la sottolineatura di una equidistanza, improponibile in una persona che ama così profondamente la storia ebraica e lo Stato d’Israele. Era invece il segno visibile di quello che è uno dei tratti fondamentali della dimensione professionale di Molinari, quello di non contentarsi di ciò che comunicano le agenzie, di voler andare direttamente alla fonte delle notizie. Esemplari, in questo senso, i suoi servizi da Gaza. E’ di nuovo la conferma di ciò che di lui giovanissimo aveva scritto Spadolini. La sua capacità di saper raccogliere informazioni di prima mano è spesso sorprendente, fa pensare a una rete d’informatori capaci e attendibili. In Medio Oriente Molinari porta naturalmente quella caratteristica che già lo aveva distinto a New York: non fermarsi alla quotidianità, cercare di allungare lo sguardo se non proprio al lungo periodo almeno fino a dove si possono cogliere le radici dei fenomeni che oggi abbiamo sotto gli occhi.
Nascono così due altri libri (per ora): Il califfato del terrore. Perché lo Stato islamico minaccia l’Occidente, uscito all’inizio di quest’anno; e Jihad. Guerra all’Occidente, appena pubblicato. Senza entrare nel merito dei due lavori, colpisce la presenza nel titolo di entrambi dell’idea di «Occidente» come oggetto della minaccia islamista, un termine troppo spesso contestato da chi si culla in illusioni irenistiche.
Due note per concludere. La prima riguarda la sua formazione giovanile. Se Spadolini è stato certamente per lui una figura chiave e il mondo repubblicano il contesto nel quale ha mosso i suoi primi passi anche professionali e da cui ha tratto principi e valori che lo hanno accompagnato per tutta la vita, non si deve nemmeno dimenticare che Molinari proviene da una famiglia socialista. Suo padre Marcello è stato infatti un apprezzato giornalista, che fra l’altro ha collaborato a lungo all’«Avanti!», soprattutto al tempo della guerra dei Sei giorni e nel periodo successivo, quando il Partito socialista, allora unificato, difendeva energicamente la causa dello Stato d’Israele in dura polemica con il PCI. L’altra si riferisce alla figura di direttore della «Stampa» alla quale Molinari potrebbe ispirarsi. So di giocare d’azzardo, anche perché sicuramente Molinari porterà al quotidiano torinese un suo personale timbro. E tuttavia credo che iniziando la sua attività di direttore a qualcuno Molinari non potrà non pensare. E il mio azzardo si chiama Arrigo Levi, che diresse «La Stampa» dal 1973 al 1978, oggetto in quel periodo delle ire di Gheddafi che ne chiese alla Fiat il licenziamento (pretesa naturalmente respinta) perché aveva pubblicato un articolo di Fruttero e Lucentini considerato offensivo nei confronti del dittatore libico ma anche perché, da giovane, aveva combattuto nell’esercito israeliano nella guerra del 1948. Un uomo dalla schiena diritta, ancora oggi, novantenne, lucidissimo, come è, d’altra parte, anche il padre di Maurizio. Una bella generazione.
Valentino Baldacci, la copertina del suo recente libro (recensito da IC)