Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/12/2015, a pag. 34, con il titolo "Jihad, la guerra santa tra i diversi islam", una anticipazione del libro di Maurizio Molinari "Jihad. Guerra all'Occidente" (Rizzoli ed.), in uscita venerdì in tutte le librerie.
Maurizio Molinari
La copertina
C’è un legame diretto fra quanto sta avvenendo sul lato Sud del Mediterraneo e i pericoli per la nostra sicurezza collettiva. Il detonatore è il disegno apocalittico di Abu Bakr al-Baghdadi, attorno al quale ruotano le sfide fra due rivoluzioni islamiche, cinque potenze regionali di Medio Oriente e Nordafrica, dozzine di grandi clan tribali e una miriade di gruppi armati e sigle terroristiche in gara fra loro per ottenere il controllo di spazi strategici, risorse energetiche, vie di comunicazione, luoghi di culto e grandi città lungo un fronte di combattimento disseminato di micro-conflitti che si snoda senza interruzione dalle montagne dell’Afghanistan alle coste del Marocco, passando attraverso lo Stretto di Hormuz, il Corno d’Africa e il Sahel. È una guerra che divora gli Stati post-coloniali del Novecento: Siria, Iraq, Libia e Yemen hanno cessato di esistere perché non hanno più governi, parlamenti, amministrazioni pubbliche e confini condivisi; Libano, Giordania, Tunisia e Bahrein temono di subire la stessa sorte; i giganti regionali Turchia, Arabia Saudita, Egitto e Iran hanno l’incubo di frammentazioni mortali. [...]
Frammentazione tribale
Il conflitto fra sunniti e sciiti, incentrato sui territori appartenuti a Siria e Iraq, è l’asse portante di questa guerra, la proclamazione del Califfato ne è stata la miccia e il brutale terrorismo che ha generato attraversa il Mediterraneo, creando una situazione di instabilità endemica che spinge le potenze regionali rivali di Arabia Saudita, Iran, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti a voler imporre i propri interessi con ogni possibile mezzo, forza militare inclusa. I contendenti sono monarchi, sceicchi, generali, capi tribù, leader religiosi e spietati terroristi: nessuno di loro possiede una inequivocabile definizione di vittoria né appare al momento in grado di imporsi sugli altri. E nessuno di loro può sentirsi del tutto al sicuro.
Il domino della frammentazione etnico-tribale è in fase di accelerazione, l’era della jihad si impone sulle macerie del nazionalismo arabo protagonista del secolo scorso fino al punto di minacciare l’unità di un Paese come la Turchia, pilastro dell’Alleanza atlantica. È uno scenario di precarietà tale da spingere tutti i leader, che guidino Stati o villaggi, a inseguire obiettivi tattici di breve termine, al fine di rafforzarsi a scapito di qualcun altro, nell’immediato e su terreni di scontro delimitati. È un modo di combattere che ripropone le faide tribali del deserto: scontri interminabili, alternati a tregue temporanee, con il tempo scandito da vendette e saccheggi al fine di sottomettere il nemico più vicino, alleandosi magari con i suoi avversari in una continua ridefinizione degli equilibri di forza a scapito delle popolazioni civili, vittime di violenze e povertà, obbligate a migrazioni massicce e disperate.
La stagione dell’anarchia
È una stagione dell’anarchia segnata dall’impossibilità di un singolo contendente - o di una coalizione di forze - di prevalere in maniera decisiva sui rivali. A evidenziarlo sono le caratteristiche militari del conflitto: si combatte su più campi di battaglia, con patti che vengono siglati e violati nello spazio di un mattino, condottieri che si alternano, nemici che si trasformano in alleati e viceversa, il tutto sullo sfondo di odii atavici che si rinnovano. L’unico elemento comune è il richiamo alla jihad, la «guerra santa» dell’Islam come fonte di legittimazione di forze contrapposte, in lotta fra loro. A riemergere è l’identità tribale di una regione dove le potenze coloniali europee, dopo la Prima guerra mondiale, imposero la nascita di Stati arabi con confini artificiali che, un secolo dopo, appaiono fragili come un castello di carte.
Nell’area fra Aleppo, Damasco, Hama e Homs, dove fino al 2011 si trovava il cuore della Repubblica di Siria, il conflitto è più aspro perché la posta in palio è strategica. L’Iran di Ali Khamenei, guida suprema della Repubblica Islamica, vuole mantenere in sella il regime alleato di Bashar Assad per consolidare il controllo di uno spazio geografico ininterrotto, da Baghdad a Beirut, che vede al governo leader alleati o assoggettati, e permette a Teheran di guidare una «mezzaluna sciita» di territori che dal Mare Arabico raggiunge il Mediterraneo mettendo una seria ipoteca sull’egemonia regionale. Tanto più che è l’unica nazione musulmana dell’area a poter vantare un programma nucleare legittimato dalla comunità internazionale.
Proprio per questo il fronte sunnita è accomunato dalla volontà di abbattere Assad: vuole infrangere il progetto di Teheran, creare un cuneo fra la Mesopotamia e la costa libanese, e procedere all’eliminazione degli alleati dell’Iran. In attesa dell’esito della battaglia di Damasco, eserciti, milizie e tribù combattono su ogni fronte: dall’Iraq allo Yemen, dal Sinai alla Tunisia, dallo Stretto di Hormuz a Suez, dal Sahara alle spiagge del Mediterraneo.
Avversari delegittimati
Non sempre si tratta di sunniti contro sciiti, perché c’è anche un conflitto interno fra sunniti: con gruppi rivoluzionari, soprattutto di matrice islamica, che vogliono abbattere i governi esistenti o impossessarsi di territori da dove esercitare nuove forme di potere e gestire traffici illeciti. Nato come scontro terrestre, questo conflitto multiforme si sta estendendo sul mare perché soldati e terroristi vedono nelle rotte sottocosta, in Libia come nel Sinai, nel Golfo come nel Mar Rosso, uno spazio di operazioni utile a moltiplicare azioni e profitti. Ponendo una minaccia diretta all’intera regione del Mar Mediterraneo. Ovvero anche alle coste dell’Italia.
Origini, campi di battaglia, comandanti militari e leader rivali di questo conflitto ripropongono una riedizione contemporanea della contesa fra sciiti e sunniti per la guida dell’Islam che inizia all’indomani della scomparsa di Maometto nell’anno 632 e si sviluppa oggi in uno scontro fra opposti modelli di islamizzazione.
È un conflitto di civiltà che si consuma all’interno del mondo musulmano e vede i maggiori contendenti puntare a unificare l’Islam sotto la propria egemonia, adoperando nei confronti del proprio nemico il termine takfiri - apostata - al fine di privarlo di legittimità, emarginarlo, sconfiggerlo e in ultima analisi eliminarlo. Avere tale grande guerra sull’uscio di casa significa per l’Europa doverla affrontare, perché il massacro di Parigi dimostra che può essere invasa e diventare il teatro di combattimento.
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