Riprendiamo da SHALOM di novembre 2015, a pag. 15, con il titolo "La profanazione della Tomba di Giuseppe come programma omicida", l'analisi di David Meghnagi.
David Maghnagi
L'incendio alla Tomba di Giuseppe
L’incendio della tomba di Giuseppe a Nablus, il secondo dopo quindici anni, è un messaggio chiaro. Per quanto in molti, in Occidente, fingono ancora di non accorgersi, ci dice qualcosa di molto inquietante. Il rogo della Tomba di Giuseppe è la messa in atto “scenica”, di un programma che ha come sfondo la negazione assoluta dell’esistenza dell’altro, il suo annichilimento fisico. Un programma ha ben poco a che vedere con l’idea di una composizione politica dei conflitti. È una prefigurazione “scenica” della società cui si approderebbe nel caso in cui gli autori arrivassero al potere. Non è il risultato di un atto di “disperazione”, come alcuni ancora affermano. È il frutto di una cultura nichilista, che ha come valore una cultura di morte.
All’indomani dal ritiro di Gaza, gli israeliani avevano lasciato distese di campi arati, scuole e abitazioni. I campi potevano essere arati dagli agricoltori, le scuole utilizzate per i bambini e le case utilizzate. Al contrario, niente fu lasciato in piedi. In una furia distruttrice, le scuole furono distrutte, le sinagoghe bruciate e i campi divelti. Non potendo annientare le persone dentro le loro case, ci si rifaceva contro i campi coltivati e le costruzioni. Al contrario la distruzione doveva simboleggiare quel che sarebbe accaduto poi. In modo analogo, con una grave responsabilità morale e politica della comunità internazionale, gli aiuti massicci che arrivano ogni anno sono utilizzati in larga parte per procurarsi strumenti di guerra. In questa perversa logica, un accordo politico, che sia veramente tale, sarebbe l’inizio della “fine”.
Nel piccolo mausoleo nuovamente dato alle fiamme si addensa una miriade di simboli. Secondo la tradizione ebraica, i resti di Yosef, il figlio prediletto del patriarca Yaacov, furono riportati nella Terra di Israele per essere sepolti a Schem (l’attuale Nablus). Secondo una tradizione bizantina del quarto secolo la tomba si troverebbe nel punto in cui sorge oggi il Mausoleo. Dopo il 1967, il Mausoleo prima vietato agli ebrei, tornò a essere un luogo di preghiera e di studio. Rispetto al racconto biblico relativo alla Tomba dei Patriarchi, collocata a Hebron, a sud di Gerusalemme, la tradizione relativa al Mausoleo di Giuseppe è di molto successiva. Nella Grotta di Machpelà, oggetto di un contenzioso irrisolto, ci sono secondo il racconto biblico, i resti dei patriarchi di Israele. La grotta fu acquistata da Abraham per dare sepoltura alla moglie Sara.
“Una voce di lamento si ode a Rama”, piange con dolore per la distruzione del Tempio, il profeta Geremia. Rachel, la madre archetipica di Israele, simbolo della Shekhinah piange sconsolata i suoi figli. Nella tradizione biblica il nascondimento del divino è temporaneo. La voce della speranza non abbandona mai ed è di questo che tutti noi abbiamo bisogno: una speranza che non sia però una pia illusione, facile illusione. La voce del Signore torna a consolare. Quella di Giuseppe, che ispirò l’opera di Thomas Mann, è una delle figure più cariche di significati nella Bibbia. Yosef è uno psicoanalista ante litteram, che non viene distrutto dall’ingiustizia e dal dolore, che non perde la capacità di pensare, di sognare e di immaginare un futuro diverso per sé e per i suoi cari. Freud ne era attratto e nell' "Interpretazione dei sogni" dedica intere pagine a un sogno in cui compare lo zio Yosef, accusato per frode molti anni prima. Il padre incanutì per il dolore. Nel mondo che conta la psicoanalisi era oggetto delle medesime accuse: “impostura ebraica”, “pansessualismo”. Il timore di fare la fine del Giuseppe biblico, si accompagna in Freud alla fiducia di rompere il cerchio dell’ostilità in cui è avvolta la sua impresa.
Il patriarca Yosef è un archetipo della diaspora ebraica, di un ebreo che nonostante un destino avverso, ce la farà e dalla sua nuova posizione, non dimenticherà mai i suoi fratelli più deboli. Capace di ricordare e di perdonare, pronto ad aiutarli nelle avversità. Anche quando è in esilio in Egitto, anche quando diventa Visir, resta legato alla sua gente e le chiede di portare un giorno il suo sepolcro nella terra dei padri. La figura di Yosef è presente con alcune varianti anche nel Corano. La distruzione di una tomba collegata alla sua memoria è la dimostrazione che l’odio ha rotto ogni argine e ha ben poco a che vedere ormai con ciò che pensano o fanno gli israeliani. È un odio indifferenziato per ciò che essi rappresentano nel delirio antisemita. Il rogo della tomba di Giuseppe c’era in realtà già stato una prima volta, all’epoca della seconda “Intifada” nel 2000. L’incendio fu appiccato non appena un piccolo gruppo di soldati israeliani, accerchiati da una folla minacciosa, erano stati portati in salvo con gli elicotteri.
Per proteggere il Mausoleo, l’esercito israeliano avrebbe dovuto rioccupare per intero un’area da cui, in base agli accordi di Oslo, gli israeliani si erano ritirati. Anche allora si “condannò”, ma solo dopo la distruzione del sito. Pur prendendo verbalmente le distanze, si lasciò fare. Come del resto si lasciò fare, nonostante le prese di distanze successive, nell’omicidio di due giovani riservisti israeliani, che si erano ritrovati senza volerlo in territorio palestinese. I due erano in custodia dalla polizia palestinese. Per loro avrebbe dovuto garantire Arafat in persona. Ma in seguito alla diffusione della notizia un migliaio di persone si raccolsero vicino al posto di polizia, assediandolo.
Uno degli assassini si affacciò alla finestra mostrando orgogliosamente le mani macchiate di sangue, gesto che provocò l’esultanza della folla. I corpi delle vittime furono gettati dalla finestra e poi trascinati in piazza, mentre la folla infieriva sui loro resti già gravemente mutilati. La scena macabra ripresa da Canale cinque fu poi trasmessa. Per evitare di essere confuso con i giornalisti che avevano documentato la scena, e che per motivi di sicurezza personale, dovettero momentaneamente lasciare il paese, - un giornalista Rai (Riccardo Cristiano, ndr.) fece sapere con una lettera, che né lui, né i colleghi, avrebbero mai mandato in onda una tale scena. Egli non era mai venuto meno alla “solidarietà” con la “causa”. Il fatto, molto grave, venne poi alla luce. Avrebbe potuto essere l’inizio di una riflessione seria sull’etica della responsabilità e sulla deontologia professionale, che sulla scia delle amare riflessioni di Popper sulla televisione, stabilisse delle regole e dei paletti, cui attenersi nell’informazione, come esistono per medici e insegnanti. Andò diversamente. Sono dati su cui riflettere e che mostrano quanto vasta è la zona grigia in cui si forma, si consolida e si diffonde il pregiudizio.
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