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La Stampa Rassegna Stampa
25.11.2015 'Altrove, forse': il kibbutz di frontiera di Amos Oz
Elena Loewenthal intervista Amos Oz

Testata: La Stampa
Data: 25 novembre 2015
Pagina: 22
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Un confine di paura per ciascuno di noi»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/11/2015, a pag. 22-23, con il titolo "Un confine di paura per ciascuno di noi", l'intervista di elena Loewenthal a Amos Oz in occasione della pubblicazione del libro "Altrove, forse".

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Elena Loewenthal

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Amos Oz

Altrove, forse, in uscita da Feltrinelli domani (pp. 352, €17), è il primo romanzo che Amos Oz ha scritto. Da allora è passato mezzo secolo ma c’è qualcosa di profondo e tenace nella sua straordinaria narrativa che già si disegna con precisione in questo grande affresco del kibbutz, sospeso fra il realismo e la fantasia. La sua voce al telefono è pacata come sempre, l’ebraico limpido e cadenzato. Ma con una sfumatura di sorpresa quasi smarrita, quando si entra nel vivo della conversazione, a parlare del romanzo.

Che cosa significa per un autore vedere tradotto un libro scritto così tanti anni prima? Si riconosce nel romanzo o sente che c’è una distanza non solo nel tempo, anche dentro la vita?
«Mi è un poco difficile parlare di Altrove, forse (che in ebraico suona Maqom Acher). L’ho scritto che avevo ventiquattro anni, e sono praticamente cinquanta che non lo leggo. Ricordo la trama piuttosto vagamente… Ma mi rallegra molto sapere che dopo tanto tempo il libro è ancora vivo, che la gente lo leggera. È questa una cosa che succede ai romanzi e non a ciò che si scrive, ad esempio, negli articoli di giornale. E’ bello che la narrativa abbia una vita così lunga. Non so se lo riprenderò in mano, il romanzo. Non rileggo quasi mai quello che ho scritto, perché se lo faccio possono succedere soltanto due cose. O mi dico: oggi lo scriverei meglio, che peccato… oppure penso: che bravo che ero, non scriverò mai più così bene. In entrambi i casi mi dispiace. Per questo mi trovo meglio a leggere quello che hanno scritto gli altri, che è una gran buona cosa».

Com’è nato questo suo primo romanzo? Altrove, forse si configura come ben più che un affresco della vita di kibbutz negli Anni Cinquanta-Sessanta, quando queste comunità erano ancora al centro della costruzione nazionale. Quale fu allora l’impulso alla scrittura?
«Il romanzo è nato certamente dalla mia esperienza di vita di allora, ma non solo. Metzudat Ram, il kibbutz immaginario (ma calcato sulla realtà) in cui è ambientato il romanzo, si trova vicino al confine siriano. Vive sotto l’ombra pesante del confine. Non è un romanzo politico. Non è un romanzo sulla guerra. Affronta un tema che ancor oggi mi interessa e mi coinvolge sul piano umano e narrativo: quello della commedia umana che si svolge all’ombra del confine. E che non di rado ha i suoi risvolti tragici, come capita anche in questa storia».

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"Altrove, forse" (Feltrinelli ed.)


Il tema del confine, del ghevul come si dice in ebraico. Che è limite, pericolo - come in questa storia, a volte - ma anche e forse soprattutto una condizione di vita. In Altrove, forse il confine è davvero la presenza più costante, sempre in vista, sempre sulla superficie dei pensieri e delle parole che i personaggi si scambiano. Parte imprescindibile della loro vita.
«Sì e non è solo una questione geografica, di vicinanza con una frontiera nemica. Il confine è un’ombra che sta sempre addosso anche quando non se ne parla. A Metzudat Ram nessuno sa quando arriveranno le cannonate dalle postazioni nemiche, sul dorso della collina vicina. Tutti osservano i movimenti lassù, dove finiscono i campi coltivati del kibbutz e comincia la frontiera. Ma nessuno ha certezze. Non è una questione specifica ma universale, secondo me. È la condizione umana, che va così. Noi pensiamo di sapere che cosa può succedere, ma non lo sappiamo mai. Ci alziamo la mattina e ci illudiamo di sapere come andrà a finire la nostra giornata: ma è solo un’illusione di certezza. Che non c’è. Mai. Non solo a Parigi con quello che è successo qualche giorno fa. Questo è per me un tema narrativo prima ancora che politico. Ed è un tema che sento ancora profondamente, per il quale trovo piena continuità nella mia scrittura, a partire da questo primo romanzo. Che chissà, magari ora che esce in traduzione italiana proverò a rileggere per vedere l’effetto che mi fa…».

E vale la pena, le assicuro. E’ un grande romanzo, pieno di vita, di contraddizioni, di nostalgia ma anche di emozioni potenti, incontrollabili. Con alcuni personaggi indimenticabili che sono come il disegno della ricca narrativa che verrà negli anni successivi.
«Sì, sì ricordo che c’è una ragazza molto particolare, nel libro. (Si chiama Noa e nelle pagine del libro cresce, la troviamo adolescente, quasi bambina all’inizio. È esile e fragile. Non sarà più così quando la storia si chiude, per aprirne un’altra ancora da raccontare). Ma tutti i miei personaggi e anche quelli di questo romanzo che ho scritto talmente tanto tempo fa che quasi non me lo ricordo più, tutti loro vivono dentro la cornice della commedia umana: fatta di contraddizioni, ombre, impulsi difficili da tenere a freno. Rimorsi e tradimenti. Anche qui ci sono tradimenti. E abbandoni. E scelte incomprensibili. Tutto all’ombra di quel confine che non è una frontiera geografica ma una condizione esistenziale che ci riguarda tutti. I miei personaggi non hanno quasi mai della dolcezza, dentro di loro. Sono per lo più aspri, ostici. A volte incomprensibili. Come Noa in Altrove, forse. E suo padre, e sua madre. E Ezra, un uomo che è capace di spostare un camion con le mani ma quando si tratta di sentimenti sembra inerme. Eppure, alla fine delle mie storie i miei personaggi si fanno volere un po’ di bene, anche. Almeno spero».

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