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La Stampa - Il Giornale Rassegna Stampa
25.11.2015 Lo Zar contro il Sultano
Due commenti di Maurizio Molinari, uno di Vittorio Dan Segre sempre attuale

Testata:La Stampa - Il Giornale
Autore: Maurizio Molinari - Vittorio Dan Segre
Titolo: «Lo Zar e il Sultano - Il lungo braccio di ferro attorno ai confini: ma la vera partita è il controllo di Aleppo - Quando Erdogan decise di resuscitare l'impero ottomano»

 Riprendaimo dalla STAMPA di oggi, 25/11/2015, a pag. 1-3, con i titoli "Lo Zar e il Sultano", "Il lungo braccio di ferro attorno ai confini: ma la vera partita è il controllo di Aleppo", due servizi di Maurizio Molinari; dal GIORNALE, a pag. 5, con il titolo "Quando Erdogan decise di resuscitare l'impero ottomano", un'analisi di Vittorio Dan Segre del 2010, in cui già veniva descritto il progetto neo-ottomano del Sultano Erdogan.

Ecco gli articoli:

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Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Lo Zar e il Sultano"

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Maurizio Molinari

Il Sultano e lo Zar duellano in Medio Oriente: con l’abbattimento del Sukhoi 24 russo da parte degli F16 turchi sul confine siriano la sfida fra Recep Tayyp Erdogan e Vladimir Putin sulla sorte di Bashar al Assad adesso rischia di degenerare in scontro militare fra Stati.

Quando a fine settembre il ponte aereo russo crea attorno a Latakia le basi teste di ponte per l’intervento a sostegno del regime di Bashar Al Assad, i primi colpi di mortaio che cadono arrivano dalle postazioni di Ahrar al-Sham, i ribelli armati e addestrati da Ankara. Sono le avvisaglie di un teatro di operazioni che vede russi e turchi su fronti opposti. I raid di Mosca vogliono aprire la strada all’avanzata di terra di siriani, iraniani ed Hezbollah attraverso la provincia di Idlib, in direzione di Aleppo, ovvero la regione presidiata da Jaish al-Fatah, la coalizione di ribelli islamici creata in maggio con un accordo fra Ankara e Riad. Le forze russe sono il tassello più importante della coalizione pro-Assad, i turchi sono l’alleato-chiave dei ribelli più pericolosi, a cui fanno arrivare rifornimenti e armi come i missili anti-tank Tow.

Disaccordo a Vienna
Quando a fine ottobre si svolge a Vienna la prima seduta del Gruppo di Contatto «speciale» sulla Siria attorno al tavolo i ministri saudita e turco fanno scintille con l’iraniano Javad Zarif. L’americano John Kerry fatica per scongiurare il collasso della seduta, ma l’esito apparentemente positivo cela la fotografia della crisi: Ankara e Riad non accettano compromessi sulla fuoriuscita di Assad, a cui Teheran, sostenuta da Mosca, si oppone. Il compromesso mediato da Kerry, con il consenso del russo Sergei Lavrov, sulla transizione – cessate il fuoco e nuove elezioni in sei mesi – non accontenta Ankara perché pur prevedendo l’uscita di scena di Assad non esclude che possa indicare un suo candidato.

Sgambetto al G20
Attriti militari e disaccordi politici trasformano Putin e Erdogan nei protagonisti della coalizioni concorrenti in Siria ed è il G20 di Antalya a mettere in evidenza. Avviene nell’ultima giornata dei lavori quando Putin mette i leader davanti alla lista dei cittadini di 40 Paesi che inviano aiuti finanziari allo Stato Islamico. I turchi sono numerosi. È uno sgambetto a Erdogan nel summit che ospita: una sfida recepita alla stregua di offesa personale. Erdogan sa bene che il 60 per cento del gas nazionale arriva da Mosca, ma accettare lo smacco significherebbe uscire ridimensionato. La contromossa sono le accuse ad Assad di «acquistare greggio da Isis» finanziando i jihadisti per rafforzare un nemico contro il quale si batte per ritrovare legittimità. L’affondo ha per obiettivo Mosca, che copre Assad.

Esodo dei turkmeni
Erdogan vede in Putin una doppia minaccia: sul piano militare vuole salvare Assad e su quello politico sta costruendo, dopo il massacro di Parigi, un’alleanza militare anti-Isis con la Francia di François Hollande capace di portare a un’intesa tattica con la Nato che relega in un angolo la Turchia. Tantopiù che Lavrov (che ha annullato la visita ad Ankara prevista per oggi) non perde occasione per esprimere sostegno ai curdi.
Per scompaginare i piani del Cremlino, Erdogan va all’attacco lì dove gli europei sono più sensibili: l’emergenza umanitaria. È nel weekend appena trascorso che Ankara accusa i jet russi di «attacchi sulle popolazioni turcomanne in Siria» con il risultato di spingere alla fuga «almeno 40 mila persone» mille delle quali già in territorio turco. I turcomanni nel Nord della Siria sono l’etnia più fedele ad Ankara. Il jet Sukhoi-24 abbattuto cade sulle montagne che popolano e i piloti, vivi o morti che siano, sono nelle mani dei loro gruppi armati.

Rivalità strategica
Alla radice di tali contrapposizioni fra Erdogan e Putin ci sono i rispettivi progetti strategici che ruotano entrambi attorno ad Assad, ma con ambizioni regionali opposte. Ankara vuole rovesciare il Raiss per trasformare la Siria in uno Stato sunnita guidato da gruppi islamici portatori dell’ideologia dei Fratelli Musulmani, che coincide in gran parte con la piattaforma del partito Akp di Erdogan, al fine di generare una sfera di influenza neo-ottomana nel Medio Oriente segnato dall’implosione degli Stati arabi. Ovvero gettare le basi di un Sultanato di Erdogan sulla regione. Putin invece vuole salvare Assad per ottenere una vittoria, politica e militare, capace di assegnare alla Russia un ruolo da Zar del Medio Oriente sfruttando l’indebolimento Usa. Ciò spiega perché Putin ha fatto coincidere l’intervento in Siria con accordi con tutti gli attori limitrofi: Iran, Iraq ed Hezbollah libanesi sono alleati mentre con Israele ha una cooperazione militare che la Giordania vuole ora imitare. Unica eccezione: la Turchia, rivale strategico al punto da rischiare di diventare nemico militare. In un conflitto fra Stati che può ruotare attorno a due coalizioni, i fedeli del Sultano contro gli alleati dello Zar.

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Il lungo braccio di ferro attorno ai confini: ma la vera partita è il controllo di Aleppo"

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Aleppo, oggi

Il jet russo abbattuto rientra nella battaglia per il controllo di Aleppo. Si tratta della più grande città siriana che da almeno tre anni è contesa fra diversi gruppi ribelli e le forze del regime ora convinti, entrambi, di poterla dominare. I raid dei jet russi sulle province di Latakia, Idlib, Homs e Hama puntano a travolgere le posizioni ribelli a Sud di Aleppo per consentire alle truppe di Assad di avanzare, come sta avvenendo, prendendo alle spalle i ribelli.

Ma se i gruppi armati islamici, in gran parte non Isis, riescono ancora a opporre resistenza al diluvio di fuoco russo è grazie ai rifornimenti che ricevono dalla Turchia del Sud. I comandi russi vogliono tagliare queste linee di comunicazione che, lungo il confine a Nord di Aleppo, attraversano le montagne abitate dalle tribù dei turcomanni sostenute da Ankara. Mosca si è convinta che le retrovie sono il punto di forza dei ribelli perché consentono di portare feriti negli ospedali, far arrivare rifornimenti di ogni tipo e soprattutto recapitare senza interruzione armamenti e munizioni.

Poiché la battaglia urbana ad Aleppo è una guerra di posizione e attrito sono tali aiuti, in arrivo con convogli o singoli mezzi, a consentire ai ribelli di poter resistere agli assalti dal cielo dell’aviazione russa e siriana. I jet russi pattugliano così da 6000 metri di altezza questa regione per monitorare i percorsi di tali traffici al fine di ostacolare sul terreno il movimento dei turchi che, secondo fonti locali, sarebbero presenti con propri agenti ed istruttori.

È una vera e propria caccia dal cielo: gli aerei cercano i rifornimenti e poi i reparti siriani tentano di bloccarli. Si tratta di un braccio di ferro militare non dichiarato fra Mosca e Ankara nelle aree di frontiera. Da qui le frizioni fra i due eserciti. Ankara vuole ostacolare la ricognizione di intelligence russa quanto Mosca vuole bloccare i rifornimenti turchi ai ribelli. Per questo l’esercito turco aveva già abbattuto un drone russo e l’antiaerea russa in ottobre ha più volte «illuminato» i jet di Ankara, per spingerli ad allontanarsi. È un braccio di ferro nei cieli che ha in palio la conquista di Aleppo.

IL GIORNALE - Vittorio Dan Segre: "Quando Erdogan decise di resuscitare l'impero ottomano"

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Vittorio Dan Segre

Al presidente Obama non costa nulla, ma rende parecchio, l'entrata della Turchia in Europa. Dimentica il veto al passaggio delle truppe statunitensi sul territorio turco all'inizio della guerra d'Irak; lo schiaffo dell'accordo nucleare dei turchi assieme al Brasile e l'Iran; il voto contro le sanzioni all'Iran al Consiglio di Sicurezza. Lo dimentica perché in Irak ci sono diecimila camion, mille carri armati, ventimila Humvee da portare a casa via Turchia. In Afghanistan le retrovie dipendono dal buon volere turco. Meno comprensibile è la convinzione di Obama che l'entrata di 80 milioni di musulmani turchi nella Comunità impedirà alla Turchia di volgersi all'Est e all'Occidente di perdere la sola democrazia islamica moderata, dal momento che la Turchia di Erdogan, sempre meno democratica, è già volta all'Est, spesso contro l'Occidente e i suoi amici.

Le ragioni del riposizionamento turco sono ideologiche, economiche e interne e il premier Erdogan leader del partito Akp (Giustizia e sviluppo) ne è il motore.

a) I turchi non vogliono più essere considerati solo un ponte con l'Occidente. Vogliono tornare ad essere, come al tempo dell'impero ottomano, «il centro del mondo». Un mondo che l'Europa ha distrutto territorialmente nella prima guerra mondiale e Atatürk culturalmente, con la creazione della Repubblica turca laica. Erdogan cavalca abilmente un'aspirazione sempre più condivisa dalla popolazione.

b) Il successo dell'islamismo del partito Akp è legato al successo della politica economica del governo. Quando Erdogan prese il potere, la lira turca aveva perso otto volte il suo valore e nel 2001 una Coca Cola costava un milione. L'Akp ha ottenuto il 47% dei voti alle elezioni del 2007 grazie alle drastiche riforme economiche, allo sviluppo industriale e agricolo. Nel giugno 2010 le esportazioni sono aumentate del 13% a confronto del 2009; le compagnie di costruzione turche hanno contratti per 30 miliardi di dollari; gli investimenti esteri si avvicinano ai tre miliardi. La Turchia, esportatrice d'acqua, è un ponte strategico energetico fra Asia e Europa. A finanziare questa rivoluzione è stato il «denaro verde», i petrodollari disponibili nelle banche islamiche. Offrono investimenti, non potendo offrire interessi, che i clienti islamici hanno accettato con entusiasmo. Non sono necessariamente condizionati da ideologia, ma condividono il desiderio di «strappare» la Turchia dal suo laicismo e dall'alleanza col il grande Satana americano e il piccolo Satana israeliano. La svolta politica turca verso l'Est e il Sud islamico ha coinciso oltre che con il crollo dell'Urss, con l'apertura dei mercati arabo-islamici incluso quelli di Paesi tradizionalmente nemici come Iran e Siria. Per cui la Turchia ha meno bisogno della lobby ebraica in America per contrastare quella armena e di Israele come l'«amico dietro le spalle del nemico» nel Medio Oriente.

c) In politica interna, l'ostacolo all'affermazione del partito islamico è l'esercito «guardiano» dell'eredità laica di Atatürk. Erdogan si è servito della dabbenaggine della Ue per di ridimensionare il potere dei militari, aderendo alla richiesta di «democratizzazione» europea. Processo appoggiato dalla Chiesa, anti laicista, in un Paese dove è proibito a un prete o una suora di vestire l'uniforme in pubblico. Staccarsi da Israele si è dimostrato pagante e di poco costo dato l'enorme prestigio che questo poteva dare al premier turco, novello Nasser, tanto presso l'elettorato islamico che nell'opinione pubblica araba dove l'odio per l'imperialismo ottomano si è affievolito nel tempo mentre quello per l'imperialismo americano ed europeo viene mantenuto caldo dal conflitto palestinese.

Sarebbe errato avvicinare il comportamento del governo islamico turco a quello del Terzo Reich nonostante il diffondersi della propaganda antisemita in Turchia, la denuncia dell'operato antigovernativo di «ricchi ebrei» e di molte forme di libertà di espressione. È tuttavia chiaro che Israele e l'Ebraismo servono da ottimo «capro espiatorio» per la politica interna ed estera di Erdogan. È dunque probabile che la rottura con Israele continuerà e crescerà se l'Akp vincerà le prossime le elezioni mettendo fine al laicismo costituzionale. L'attrazione europea resterà retorica e comunque inferiore a quella islamica e all'aspirazione neo ottomana. Se si aggiunge la continuata occupazione turca di Cipro, la tensione con l'Armenia, l'avvicinamento all'Iran, l'appoggio a Hamas, l'alleanza con la Siria, l'orientamento economico verso l'Est e la tensione con Israele, l'entrata della Turchia nella Comunità, nonostante i voti di Obama, appare improbabile.

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