Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 24/11/2015, a pag. 1, con il titolo "Sepolcro belga", l'analisi di Walter Russell Mead; dalla STAMPA, a pag. 7, un titolo preceduto dal nostro commento, a pag. 4, con il titolo "Molti islamici alla guida dei bus: la Francia ha un altro fronte interno", la cronaca di Alberto Mattioli; dalla REPUBBLICA, a pag. 9, con il titolo "Nel cuore dell'Ue pieno di islamisti: così il Belgistan fabbrica il terrore", l'analisi di Daniele Mastrogiacomo.
Ecco gli articoli:
IL FOGLIO - Walter Russell Mead: "Sepolcro belga"
Walter Russell Mead
Quelli pubblicati sono stralci di un lungo articolo apparso sulla rivista The American Interest. Traduzione a cura di Ermes Antonucci.
Nella sua inquietante opera “Cuore di tenebra”, Joseph Conrad definì Bruxelles la città dei sepolcri imbiancati. L’espressione deriva dal Nuovo testamento: fu Gesù a dire che gli ipocriti capi religiosi e delle comunità di allora assomigliavano a delle tombe imbiancate. Brillanti e luminose all’esterno, ma piene di putridume e decadimento al loro interno. Conrad coniò questa espressione riferendosi al Belgio sotto il malvagio re Leopoldo II, che instaurò un regime brutale in Congo. Prendendo parte al sanguinario regime di Leopoldo e alle sue pratiche di sfruttamento, le élite commerciali, politiche e culturali di Bruxelles si comportarono da ipocriti della peggior specie. E la frase, seppur con un significato diverso, appare appropriata anche per la Bruxelles di oggi: una città che si presenta all’esterno con una facciata scintillante, fatta di istituzioni internazionali e di alti valori, mentre le sue interiora si deteriorano alle prese con il disfacimento sociale e il sanguinario culto della morte esploso davanti agli occhi del mondo la scorsa settimana a Parigi. Nessun’altra città si identifica di più con i nostri ideali post moderni e post storici di governance cosmopolita.
La Nato e l’Unione europea hanno le loro basi a Bruxelles. Da qui partono gli avvertimenti nei confronti dei leader e dei paesi più arretrati in Europa e altrove. E’ qui che migliaia di eurocrati lavorano duramente per un futuro post storico, è qui che i valori e le aspirazioni dell’occidente si manifestano in istituzioni concrete. Insomma è questa, sotto molti aspetti, la capitale d’Europa. E questa è anche la capitale del mondo post storico. Nel lontano 1990 visitai la città e un mio amico mi portò alla bellissima Grand Place, il cuore dell’amministrazione nel centro storico della città. Da un lato, egli richiamò la mia attenzione su un delizioso ristorante di lusso: quello, mi disse, nel Diciannovesimo secolo era uno sciatto bar per operai, ed è lì che Friedrich Engels e Karl Marx si incontrarono per redigere il “Manifesto” del partito comunista. Dall’altro lato della piazza, egli mi indicò un negozio di cioccolato Godiva. Fu lì, disse, che la divisione Charlemagne delle SS reclutò i belgi “ariani” per aiutare Hitler nella guerra contro i sovietici.
Questo era, nel concreto, il mondo post storico. Nessun comunismo, nessun fascismo, ma solo shopping di lusso. Questo è il mondo che gran parte dell’occidente pensava stesse costruendo; ma non è il mondo dove noi viviamo oggi. La mecca turistica della Grand Place, le istituzioni dell’Ue e della Nato: queste costituiscono la superficie laccata, lo straordinario aspetto esteriore della città contemporanea; mentre il suo interno bolle di odio e di fanatismo, resi ancora più efficaci e virulenti da cronici fallimenti di governo. Il lungo stallo tra i fiamminghi (di lingua olandese) e i valloni (di lingua francese) hanno reso il Belgio, e in particolare Bruxelles, un caos. Una soluzione di compromesso è stata quella di dividere il potere in tanti distretti e comunità; come ricorda il New York Times, 19 zone municipali sono divise in sei “aree” di polizia che coprono una città di un milione di abitanti. Il risultato è che molte parti della città sono controllate a fatica dalla polizia. Nel frattempo, a dispetto delle alte aspirazioni sociali e della grande retorica sull’integrazione e sull’opportunità pronunciate da quegli europei che tessono con entusiasmo le lodi dei propri modelli sociali, in qualche modo, generazione dopo generazione, gli immigrati continuano a ristagnare in un’atmosfera deleteria fatta di esclusione, disoccupazione e crimine.
I fallimenti di Bruxelles sono emblematici dei fallimenti dell’Europa. La città che aspira a governare un’Europa post nazionale è stata resa impotente dalle futili gelosie e dalle maligne rivalità di due gruppi etnici, grandi a malapena per potere essere qualificati come tribù in gran parte del mondo. Bruxelles costituisce per certi versi la satira del progetto europeo: devoto a obiettivi transnazionali, azzoppato da irrisolti litigi etnici. Una città dedita ai valori umani universali e secolari ora minacciata da fanatici culti della morte, cresciuti nei suoi miseri e insicuri bassifondi. L’occidente nel suo complesso è viziato da grandiosità morale e da performance fallimentari. Raramente la nostra autostima è stata più solida, e la nostra performance più misera. Ci trastulliamo con ciò che crediamo sia l’ultima opera incompiuta dell’implementazione di un egualitarismo universale, come per esempio l’occuparsi degli studenti di scuola superiore che si identificano in un genere diverso da quello con cui sono nati, assicurandoci che essi possano usare la toilette verso la quale sono condotti dalle loro aspirazioni.
Raffiguriamo noi stessi come dei guerrieri coraggiosi, anche se le fondamenta del nostro mondo stanno cominciando a crollare. Sosteniamo che la tolleranza e la diversità costituiscono i riferimenti della nostra civiltà, ma abbiamo cresciuto una generazione di rammolliti che non riescono a sopportare l’idea di essere esposti a idee non ortodosse, o al trambusto e ai conflitti che la vita in una società variegata inevitabilmente produce. Per citare un’altra condanna di Gesù nei confronti dell’ipocrisia, “paghiamo la decima della menta, dell’aneto e del comino, e trascuriamo le cose più importanti della legge”. In altre parole, ci impegniamo ossessivamente in piccole e noiose questioni, e ignoriamo le sfide ben più gravi che ci fronteggiano da ogni lato. Bruxelles questa settimana è stata paralizzata dai suoi fallimenti. La metropolitana è chiusa; la città si ritrova in un completo coprifuoco di sicurezza, inclusa la scintillante Grand Place; le scuole domani (lunedì, ndt) rimarranno chiuse. I suoi cittadini, rintanati in casa, contemplano con imbarazzo quel nemico che il fallimento delle politiche europee e la paralisi del Belgio hanno permesso di far crescere al suo interno.
La Bruxelles di oggi è l’occidente di domani. A meno che non cambiamo direzione, ci ritroveremo sempre di più a vivere in un mondo in cui la realtà si prende gioco delle nostre aspirazioni, e dove l’imbiancatura delle nostre istituzioni non è più in grado di celare l’imputridimento al loro interno. Con ciò non si intende rendere i cittadini di Bruxelles oggetto di particolare condanna. Noi tutti dovremmo stare dalla loro parte in questi tempi di paura; i nostri pensieri e le nostre preghiere vanno alle forze di sicurezza che stanno lavorando per mantenere i propri cittadini al sicuro. Abbiamo commesso pure noi i loro errori, e i pericoli che ora li minacciano, minacciano anche noi. Gesù, mentre predicava, giunse in un luogo che mostrava il genere di grandiosità morale così comune nel mondo occidentale di oggi. Il fiorente villaggio sembrava credere di avere in riserbo per sé una sorta di destino speciale, ma Gesù non fu impressionato: “E tu, o Cafarnao, che sei stata innalzata infino al cielo, sarai abbassata fin nell’inferno”. Lo scorso fine settimana Bruxelles ha avuto una piccola dimostrazione di cosa significhi tutto ciò, e noialtri dovremmo prestare attenzione.
LA STAMPA, a pag. 7, pubblica un articolo con il titolo : "Ecco la stretta del Viminale: quattro marocchini espulsi". Come "stretta" ci aspettavamo qualcosa di più, per esempio controlli sistematici sui nuovi immigrati, monitoraggio costante di quello che avviene nelle moschee e nei centri islamici, espulsione di chi si avvicina al terrorismo. E invece la "stretta", per la redazione della Stampa, consiste nell'espulsione di quattro marocchini. Un titolo di inconsapevole ironia. Anche perchè finora le 'espulsioni' sono quasi sempre state seguite da un ritorno.
LA STAMPA - Alberto Mattioli: "Molti islamici alla guida dei bus: la Francia ha un altro fronte interno"
Occorre distinguere con fermezza tra libertà di scelta e di religione e barbarie. La possibilità di non lavorare durante le festività religiose (per esempio il Ramadan) è un diritto; al contrario, non rispondere al saluto delle donne o addirittura rifiutare "di prendere il volante perché al turno precedente l’ha preso in mano una autista" è barbarie che non può essere tollerata in uno stato di diritto fondato su uguali opportunità e sull'eguaglianza tra donne e uomini.
Ecco il pezzo:
Alberto Mattioli
E se un autista di bus rifiuta di prendere il volante perché al turno precedente l’ha preso in mano un’autista con l’apostrofo, insomma un’impiegata donna? Perché capita che dei dipendenti barbuti della Ratp, l’azienda dei trasporti di Parigi, rispondano al saluto dei passeggeri che salgono solo se sono uomini? E che si fa (è capitato) se il conducente ferma l’autobus e si mette a pregare rivolto verso la Mecca?
Vite normali
Uno dei kamikaze di Parigi, per la precisione Samy Amimour, francese, 28 anni, aveva lavorato per quindici mesi, fra il 2011 e il ‘12, proprio come autista della Ratp. Per la verità, non aveva dato mai problemi, e del resto questi terroristi della porta accanto avevano in comune, tutti, il fatto di comportarsi in modo perfettamente normale, senza mai dare nell’occhio. Però il dettaglio dello jihadista al volante fa ridiscutere il problema di conciliare lavoro e osservanza religiosa, almeno nella sua versione più integralista.
Secondo «Le Figaro» che dedica all’argomento una dettagliata inchiesta, la Ratp è particolarmente interessata. I conducenti di autobus sono 17 mila, e si tratta di un lavoro molto gettonato nelle banlieue più religiosamente «calde». L’azienda replica che simili comportamenti «comunitari» sono molto minoritari: una quarantina di casi censiti su 45 mila impiegati nell’Ile-de-France, lo 0,1 per cento. Però Christophe Salmon, sindacalista della Cfdt, racconta di situazioni ormai «banalizzate», quindi nemmeno più segnalate: dal rifiuto di stringere la mano alle colleghe donne alla domanda di cambiare i turni per il Ramadan. Il problema, evidentemente, esiste: dal 2005 è iscritta nel contratto collettivo di lavoro una «clausola di laicità» che vieta, fra l’altro, di portare segni religiosi, velo compreso; e durante la formazione un sociologo tiene una lezione su «servizio pubblico e laicità».
Sottovalutare i segnali
Però sono state segnalate lamentele sia da parte delle dipendenti dell’azienda (solo il 6% dei conducenti), sia da parte delle utenti, seccate perché l’autista risponde soltanto al «bonjour» dei passeggeri maschi. E casi simili, seppure meno frequenti (o forse solo meno pubblicizzati) si sono verificati ad Air France, alla Sncf (le ferrovie), alle Poste, alla nettezza urbana. Racconta un sindacalista della società Esterra, raccolta dei rifiuti: «Fino agli Anni Novanta e Duemila, tutto andava benissimo con i nostri colleghi venuti dal Maghreb. I problemi sono iniziati quando hanno assunto dei giovani, che ci hanno detto: non ci faremo fregare come i nostri padri».
Sono comportamenti seccanti, ma che possono sembrare poco importanti. Non è così, o almeno non è così in Francia. Un dogma della République è quello della laicità: la religione è un fatto esclusivamente privato, irrilevante nella vita pubblica, tanto che è perfino vietato chiederla nei censimenti (è poi la ragione per la quale non si sa quanti musulmani ci siano esattamente in Francia: si parla di cinque o sei milioni, ma dati certi non ce ne sono). Per i custodi delle virtù repubblicane, il «comunitarismo» è una bestemmia. Tanto che, paradossalmente, Marine Le Pen e il suo Front National hanno fatto della difesa intransigente della laicità, che è una battaglia storicamente di sinistra, uno dei grandi argomenti della loro offensiva contro l’«invasione» islamica. I danni collaterali della tragedia di venerdì sono ancora tutti da censire.
LA REPUBBLICA - Daniele Mastrogiacomo: "Nel cuore dell'Ue pieno di islamisti: così il Belgistan fabbrica il terrore"
Daniele Mastrogiacomo
Soldati presidiano la Grand Place, a Bruxelles
Sono stati i giovani, quelli di terza generazione, a chiamarlo “Belgistan”. Nati e cresciuti qui, a Molenbeek. Bisogno identitario, riscatto, orgoglio. un quartiere, a due passi dal centro sfavillante di Bruxelles, cresciuto e rimasto un ghetto. Musulmano. Marocchino, soprattutto. «La seconda comunità più povera e più giovane di tutto il Belgio, 50 per cento di disoccupazione, una densità di 16mila persone per chilometro quadrato», ricorda Annalisa Cataletta, italiana, assistente del sindaco Francoise Schepmans. Ma non è solo Molenbeek, ora noto in tutto il mondo per la strage di Parigi, a spiegare l’esercito di jihadisti allevati dal Belgio.
La radicalizzazione è stata una costante negli ultimi 10 anni. Nel sud e nell’ovest del paese. I dati servono a inquadrare. Non a capire. L’ufficio che segue il terrorismo islamico parla di 380 combattenti andati in Siria fino a metà di quest’anno. Ma secondo Pieter Van Ostaeyen, storico dell’Islam, considerato il massimo esperto della materia, è una stima per difetto. Sulla base di uno studio che ha realizzato seguendo sui social le chat e i post pubblicati nei diversi account, è giunto alla conclusione che in realtà sono 482, probabilmente 500. La differenza non è solo numerica. Dimostra quanta approssimazione ci sia nell’affrontare e controllare un universo così ampio e così mutevole. «I governi - spiega Van Ostaeyen - fanno i conti in base alle intercettazioni e alle dichiarazioni fatte dalle persone tenute sotto controllo. In rete è diverso. All’inizio della guerra civile in Siria, per esempio, molti combattenti mettevano come residenza una città del paese. Ma era solo una manifestazione di sostegno. Così come si è scoperta la presenza in Siria di alcuni miliziani belgi sono quando la loro morte è stata ufficializzata sui social».
Il Belgio si conferma come il paese che fornisce a Daesh il più consistente battaglione di tutta Europa: 33,9 combattenti per milione di abitanti. Seguono l’Inghiterra (31,0), la Svezia (30,6), la Danimarca (26,3), la Germania (22,3) la Francia (18,1). Solo la Bosnia- Erzegovina (87,2) e il Kosovo (157,9) superano la terra di re Filippo: ma sono due paesi con popolazione a maggioranza musulmana. Le chat e i blog sono eloquenti: tra i due milioni di messaggi spediti sugli account del Califfato, rileva uno studio italiano, il Belgio è terzo dopo Qatar e Pakistan. Come si spiega? E come è stato possibile per Bruxelles non rendersi conto che, da anni, tra le sue case, cresceva un vivaio di potenziali jihadisti, pronti a farsi esplodere? La caccia a Salah Abdelslam e lo stato d’assedio con il massimo grado di allarme sono la reazione improvvisa ad un pericolo sottovalutato, lasciato ai margini, considerato semplice solidarietà da parte di una popolazione che partecipava da lontano, con il cuore e i sentimenti, alla tragedia siriana. Non è stato così. C’erano tutti i segnali per capire e intervenire. Gli assassini di Massoud sono arrivati da qui; due killer dei commando di Madrid erano partiti dal Belgio. Per non parlare degli altri legami con diversi attacchi, da Charlie Hebdo al treno Thalys, che sono emersi negli anni. Il Belgio si è dimostrato un hub logistico ideale.
«Per la sua posizione geografica al centro dell’Europa - osserva ancora Pieter Van Ostaeyen - Perché ospita una vasta popolazione musulmana, diversa e diffusa sul territorio, nella quale si nascondono facilmente quelli più radicali». L’estremismo islamico ha lavorato a fondo tra il 1990 e il 2000. Gli imam protestavano contro le discriminazioni. Insistevano sulla “ da’wa”, l’invito a seguire i precetti del Corano. Roba ufficiale, alla luce del sole. La legge che proibiva il velo è stato il primo deterrente. Sotto i sermoni ufficiali ha cominciato a muoversi un’attività più radicale. Nascono i primi gruppi di jihadisti. Nel 2010 si impone “Sharia4Belgium”, un gruppo guidato da Omar Bakri e Anjem Choudary. «Le origini siriane del primo e l’arrivo di Amr al-Absi - spiega Van Ostaeyen, - una figura chiave nella formazione dello Stato Islamico, creano una generazione di jihadisti ». Sono quelli che partono quando la guerra in Siria riaccende le speranze di giovani isolati e delusi dal contesto in cui vivono. Uomini e donne della terza generazione.
«Su 50 combattenti belgi - ricorda Van Ostaeyen - solo il 18 per cento è nato all’estero». Vanno e vengono. Con i loro documenti. Hanno precedenti per furti, violenze, droga. Una costante per i giovani di Molenbeek e altre periferie. Molti sono anche benestanti, hanno studiato, lavorato. Sono inseriti. Amori, musica, bevute, spinelli. Restano in contatto con i loro amici che incontrano e frequentano anche quando tornano dai campi di battaglia. Li abbiamo incontrati e tutti sono rimasti sorpresi dai fratelli Abdeslam. Soprattutto da Salah, considerato solo uno che si godeva la vita. Come il terrorismo degli anni ‘70. Si mescolano, restano sotto traccia. Ma con uno spirito diverso. Decisi, esaltati. Pronti a colpire. Nei paesi vicini, in Francia. Il Belgio deve restare terra franca. La base logistica e organizzativa. Fino ad oggi.
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