Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/11/2015, a pag. 13, con il titolo "Non è una guerra e nessuno pensa a spedizioni di terra", il commento di Alessandra Arachi; dalla REPUBBLICA, a pag. 23, con il titolo "Fermiamo subito Daesh o la paura ci distruggerà", l'intervista di Alexandra Schwartzbrod a David Grossman.
I due articoli che ripubblichiamo in questa pagina hanno in comune il wishful thinking, il pensiero conciliante che non fa i conti con le circostanze e auspica sempre e comunque il dialogo, anche con i terroristi più efferati. Una linea cieca, come gli eventi degli ultimi anni hanno già abbondantemente dimostrato.
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Alessandra Arachi: "Non è una guerra e nessuno pensa a spedizioni di terra"
Paolo Gentiloni
Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, è pacato ma deciso: «Gli italiani possono sentirsi garantiti, stiamo facendo il massimo per la loro sicurezza. Non possono sentirsi immuni, però. Nessun Paese può esserlo in questa strategia». Il titolare della Farnesina ieri pomeriggio è arrivato nello studio di #Corrierelive per una diretta streaming sul nostro sito web condotta da Antonio Polito e Tommaso Labate, in contatto via Twitter con i nostri lettori. Il ministro Gentiloni non ha esitato davanti a nessuna domanda. Tante quelle sulla nostra sicurezza, ad una settimana dagli attentati di Parigi. La più ricorrente: hanno ragione gli italiani ad avere paura? «Fanno bene a stare attenti il doppio del normale: siamo in una situazione di sicurezza eccezionale dove ci sono criminali disposti a farsi uccidere per uccidere altre persone», ha detto il ministro Gentiloni respingendo tuttavia l’ipotesi di una guerra: «Combattiamo il terrorismo e dobbiamo difenderci con le nostre misure di sicurezza: sicuramente viviamo una situazione eccezionale e il livello di tensione è alto. Ma resisto all’idea di usare le parole “siamo in guerra”. Non siamo in Francia, un Paese che è stata colpito in modo infame e ignobile: è comprensibile che il presidente Hollande reagisca usando una parola come guerra». Combattiamo il terrorismo e — valuta il ministro — è giusto pensare a misure restrittive in ambito europeo («ma non a sospendere Schengen»).
Nessuno però ha intenzione di inviare truppe di terra in Siria o in Iraq. Spiega Gentiloni: «L’Italia appoggia una transizione in Siria e sta facendo tanto in Iraq, anche addestrando le forze di polizia irachene. Ma se qualcuno pensa a corpi di spedizione con migliaia di soldati che vanno in Iraq o in Siria, penso che America, Russia, Francia, Italia non siano interessati a fare operazioni di questo genere». Da Parigi a Bamako, in Africa. Secondo il ministro degli Esteri quello che è successo ieri in Mali, dentro al Radisson Blu Hotel, non avrebbe avuto una simile eco prima della strage di Parigi. Dice infatti Gentiloni: «Se fosse successo venti giorni fa avrebbe avuto meno riflettori di oggi, perché purtroppo nel Paese sono frequenti azioni terroristiche e attentati. La situazione è molto tesa, d’altra parte è un Paese in cui il rischio islamista e terrorista è molto presente». Le domande sulla paura continuano.
Ma fra i lettori di #Corrierelive c’è chi non dimentica i Marò, i nostri due fucilieri Salvatore Girone e Massimiliano La Torre: quando torneranno in Italia liberi? Il ministro Paolo Gentiloni prende a cuore la questione: «Per i due fucilieri abbiamo avviato un arbitrato internazionale e confidiamo nelle nostre buone ragioni», dice spiegando tuttavia che l’arbitrato non si risolve in un giorno. Aggiunge quindi: «Per questo entro Natale abbiamo intenzione di chiedere al Tribunale speciale internazionale misure provvisorie che consentano a Salvatore Girone di trascorrere in Italia il tempo di durata dell’arbitrato». L’altro marò, Massimiliano Latorre, in Italia è già rientrato nel settembre del 2014 per via di un ictus che lo costringe a cure e attenzioni.
LA REPUBBLICA - Alexandra Schwartzbrod: "Fermiamo subito Daesh o la paura ci distruggerà".
Alexandra Schwartzbrod
David Grossman
Lo scrittore israeliano David Grossman il weekend scorso era a Parigi per presenziare a un congresso di psicanalisti, alla fine annullato a causa degli attentati. Mi ha ricevuta nel suo albergo nel centro di Parigi ed è stato lui a fare la prima domanda: «È lontana da qui place de la République? Quanto ci vuole a piedi? Mi piacerebbe unirmi alla folla».
Lei che vive in un Paese lacerato dagli attacchi terroristici, come spiega gli attentati di venerdì 13? Perché la Francia è presa di mira? «È difficile mettersi nella testa di persone fanatiche. Non solo loro non riescono a capire gli occidentali, anche gli occidentali non riescono a capirli. La politica estera della Francia probabilmente spiega almeno in parte questi attacchi dello Stato islamico. Ma anche il modo di vivere dei francesi e quel motto repubblicano “Liberté, égalité, fraternité”. Anche se non sempre viene rispettato, per i fanatici resta una provocazione, qualcosa da distruggere. Quello che la Francia però deve capire bene è che questi atti terroristici non sono appelli disperati al dialogo, sono una volontà ermetica di diffondere il terrore. Non si può negoziare nulla con questa gente, sono venuti per uccidere. Non può esserci nessun dialogo possibile con persone che vogliono ammazzarvi non per quello che fate, ma per quello che siete».
C’è dunque un parallelo con la situazione in Israele? «Intendiamoci: un omicidio è un omicidio, qualsiasi atto terroristico dev’essere condannato col massimo vigore. Ma ritengo che ci sia una grande differenza fra quello che vive oggi la Francia e quello che viviamo noi. In Israele, se riusciremo a trovare una soluzione con i palestinesi, sono sicuro che le azioni terroristiche cominceranno a diminuire. Il buon senso finirà per imporsi. Sono profondamente convinto che rimane uno spazio di negoziazione con i palestinesi».
Dopo questi attentati cosa cambierà nella società francese? «Vivere nella paura è distruttivo. Si acquisisce il riflesso istintivo di vedere dei pericoli dappertutto. Non si riesce a evitare di guardare l’altro, se è diverso da te, come un pericolo. È questa la forza del terrore. Ci riporta a un volgare stadio animale. E soprattutto ci mostra con quanta rapidità si possono dimenticare i nostri valori di libertà e di democrazia. Ci vorrà tempo per uscire da tutto questo. Ma ci sono momenti, nella vita, in cui bisogna scegliere fra due cose sgradevoli. La Francia deve assolutamente unirsi con i Paesi che combattono lo Stato islamico, e in particolare la Russia. E soprattutto deve andare a combattere sul terreno. Lo Stato islamico ha un impatto enorme, ma è un’organizzazione piccolissima. In compenso, non bisogna assolutamente confondere lo Stato islamico con l’islam. È esattamente quello che vuole Daesh: dividere la società francese, aizzare i non musulmani contro i musulmani».
Amos Oz ha dichiarato che non parteciperà più alle manifestazioni ufficiali israeliane per protesta contro la politica di Netanyahu. Lei è sulla stessa linea? «Rispetto la posizione di Amos Oz, ma considero importante che le ambasciate israeliane nel mondo rappresentino anche le mie opinioni critiche, anche quando faticano a mandarle giù».
Non ha paura che Daesh finisca per insediarsi a Gaza o in Cisgiordania? «Sì, naturalmente. E il solo modo per evitarlo è negoziare con i palestinesi. Se non offriamo loro un modo per esprimere la loro identità nazionale, c’è il rischio che cedano alla tentazione del radicalismo. E bisogna fare in fretta, non abbiamo abbastanza tempo: il “terrorismo dei coltelli” è già influenzato dallo Stato islamico».
Netanyahu è in grado di farlo? «Difficile a dirsi. Io penso che faccia un errore di fondo: la sua più grande aspirazione non è risolvere il conflitto, ma gestirlo, contenerlo. La destra israeliana ritiene che esista una sorta di status quo con i palestinesi, che comprende fasi di violenza. Ma hanno torto. Quando un popolo è oppresso, non può esserci nessuno status quo. La rabbia dei palestinesi è sempre più trattenuta, finirà per esplodere, e questa volta sul modello dello Stato islamico».
Bisogna dialogare anche con Hamas? «C’è una differenza fra Hamas e lo Stato islamico. Hamas affonda le sue radici nella popolazione, per molto tempo ha rappresentato una causa che alla popolazione appariva difendibile. Daesh è un esercito che cerca di fabbricarsi una popolazione. Non gode di un ampio consenso fra la gente come Hamas. Nell’Olp ci sono ancora dei leader con cui si può discutere, in Hamas no. Se si trova un compromesso con i palestinesi, allora bisogna riuscire a stipulare un cessate il fuoco con Hamas. Ridurre l’intensità del fuoco che cova sotto la cenere di questo conflitto sarebbe già un grande successo. Se i palestinesi riusciranno a ritrovare un po’ di normalità e di dignità, invece di umiliazioni quotidiane e check-point, allora saranno sempre meno quelli decisi a combatterci. Bisogna fare in modo che i nostri due popoli straziati arrivino a trovare un compromesso, anche doloroso, nonostante manchino drammaticamente del vocabolario della pace».
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