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La Repubblica Rassegna Stampa
20.11.2015 'Come evitammo il panico a New York l'11 settembre'
Arturo Zampaglione intervista Bernard Kerik, ex capo della polizia di New York

Testata: La Repubblica
Data: 20 novembre 2015
Pagina: 7
Autore: Arturo Zampaglione
Titolo: «'Fiducia e informazione, così a New York evitammo il panico'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/11/2015, a pag. 7, con il titolo "Fiducia e informazione, così a New York evitammo il panico", l'intervista di Arturo Zampaglione a Bernard Kerik, ex capo della polizia di New York.

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Arturo Zampaglione

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Bernard Kerik

«Per contrastare il panico tra la popolazione civile dopo un attacco o una minaccia dei terroristi — ci dice Bernard Kerik — occorre soprattutto un grande sforzo di sindaci e autorità locali. Devono mantenere sempre un filo diretto con gli abitanti lanciando messaggi il più possibile trasparenti e specifici. Non si devono stancare di ripetere che il sistema è pronto a fronteggiare al meglio ogni evenienza. Devono trasmettere un senso di calma, facendo capire che la situazione sotto controllo. Ed è esattamente quel che abbiamo fatto a New York dopo l’11 settembre». Sì, perché “Bernie”, come Kerik viene chiamato da amici e colleghi, era il NY Police Commissioner, ovvero il capo dei 40mila agenti di polizia di New York, quando i kamikaze di Al Qaeda fecero schiantare i due aerei sulle Torri gemelle. Fu lui, assieme al sindaco Rudy Giuliani, a coordinare la risposta della metropoli a quell’attacco. Sempre lui a occuparsi un mese dopo delle temibili buste all’antrace. Kerik, che ha 60 anni ed è repubblicano, uscì da quell’esperienza a testa alta — George W. Bush lo nominò ministro degli interni del governo provvisorio in Iraq — anche se poi venne trascinato in una brutta vicenda giudiziaria di tasse non pagate. Attualmente dirige la sua società di consulenza sulla sicurezza.

Kerik, cominciamo proprio dalla sua esperienza del 2001: quale fu la vostra arma segreta per combattere la paura? «Come forse sapete, ero insieme ail sindaco Giuliani vicino alle Torri quando sono crollate. Invece di tornare al centro di comando, abbiamo subito parlato alle televisioni, tra il fumo e la polvere. Le nostre parole erano chiare: è successa una cosa molto brutta, ma ne usciremo. Come dire: abbiamo diffuso un messaggio ottimista. E nei giorni successivi abbiamo continuato a fare due, tre conferenze stampa al giorno: per comunicare ogni nuovo dettaglio e per tranquillizzare l’opinione pubblica. Invitavamo tutti a non essere codardi, a uscire di casa, ad andare in vacanza. Che poi non è molto diverso da quel che ha fatto l’altro ieri l’attuale sindaco Bill De Blasio».

Si riferisce alle dichiarazioni dopo la diffusione del video dell’Is che minacciava attentati a Times square? «Sì, il sindaco e il mio successore a capo della polizia, William Bratton, senza perdere tempo, hanno tenuto una conferenza stampa a un’ora insolita — le 11.30 di sera — per dire che le minacce erano credibili, ma non specifiche: che quindi non c’era un pericolo immediato. Hanno insistito sulla preparazione della città e invitato tutti i cittadini a segnalare eventuali cose sospette».

Ma gli otto milioni e mezzo di newyorchesi sono abituati da tempo a vivere in questo clima: per l’Europa, invece, si tratta di un nuovo vento di paura, che soffia da Parigi e investe anche l’Italia. «Non è proprio così: a cavallo degli anni Ottanta venivo spesso in Italia, perché a quell’epoca lavoravo in Arabia Saudita, e ricordo molto bene gli anni delle Brigate Rosse e il sequestro Moro. L’Italia ha purtroppo una esperienza di lotta al terrorismo, che però condusse con molto coraggio: anche adesso può fare altrettanto».

Nel mirino delle Brigate Rosse c’erano però manager, generali e politici, mentrel’Is attacca cittadini a caso... «…Ed è soprattutto nemico delle convinzioni, delle fedi religiose e del modo di vita degli occidentali. È importante che tutti si rendano conto di chi è veramente il nemico e di quanto sia vitale combatterlo. Chi lo ha capito bene, e reagisce nel modo migliore è proprio il Papa».

Si riferisce alla decisione di Francesco di confermare il viaggio in Africa a dispetto dei rischi? Perché è tanto importante? «Perché diffonde un senso di serenità e fiducia. E poi, considerato che si tratta del leader moralmente più importante del mondo, indica una strada, un percorso in cui tutti dovrebbero riconoscersi».

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