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Non è tempo per piangere in Israele Commento di Dario Sanchez Come tutti sanno, ottobre non è stato esattamente un mese facile per Israele. La tempesta di violenza, lacrime e sangue con cui il terrorismo palestinese ha scosso le nostre vite e la calma delle nostre strade, anche se in questi giorni appare attenuata, è ancora al di là dal finire, e sono in tanti a interrogarsi su quali potrebbero essere gli sviluppi della catena di eventi che a più riprese è stata definita come l’intifada dei coltelli. Ampio spazio è stato dato a questo o a quell’attentato, e non sono mai mancati gli elenchi con i nomi delle vittime e degli aggressori. Ciò che è mancato, colpevolmente, è stato il racconto della reazione per lo più composta e dignitosa di cui più volte ha dato prova la popolazione israeliana in queste settimane di dolore e tensione. In particolare, a mostrare coraggio e nervi saldi sono stati i nostri giovani, impegnati a migliaia nella leva obbligatoria o come riservisti in tutte le zone calde dove la convivenza tra ebrei e musulmani è messa ogni minuto a rischio dai fanatici al soldo degli imam estremisti e dai burocrati dell’"Angelo della Pace” di Ramallah. Voglio colmare questo vuoto, per raccontarvi che cosa significa vivere a diciotto, diciannove, venti, venticinque anni in un Paese che affronta periodicamente fin dal primo giorno della sua nascita lunghi periodi in cui la sua stessa esistenza è seriamente messa in discussione. In Israele si impara presto che la più alta forma di resistenza al terrore è la strenua difesa della quotidianità. E se è vero come è vero che il terrorismo è riuscito momentaneamente a cambiare alcune delle nostre abitudini - ad esempio per ovvi motivi di prudenza è ancora impossibile a Gerusalemme vedere per strada o su un autobus un ragazzo ascoltare musica o tenere lo sguardo sullo schermo del proprio smartphone - è altrettanto vero che nessun liceo, università, discoteca, pub, ristorante ha abbassato nemmeno per un istante le saracinesche o cambiato orari e programmi: a disertare questi spazi non sono stati tanto gli israeliani, ma, purtroppo, molti turisti. Persino i membri di quelle ONG “ostili" e quei giornalisti che di tanto in tanto si affacciavano dai balconi dei loro alberghi nella speranza di vedere le vie di Gerusalemme, di Beer Sheva e Tel Aviv deserte hanno dovuto prendere mestamente atto che nemmeno per un momento la nostra voglia di vivere le nostre giornate e gli spazi delle nostre città non è stata soffocata sotto la cappa del terrorismo, ma è anzi diventata il simbolo della nostra ostinazione e della nostra resistenza alla violenza. Non c’è tempo per piangere, in Israele. Talvolta nemmeno nell’intimità della notte. Ogni ferito e ogni vittima al contrario esige da parte nostra uno sforzo ancora maggiore a continuare sulla strada del sogno iniziato quel lontano 1948. Raccogliere i cocci, e pedalare… magari su una delle migliaia di biciclette di ogni tipo, colore e dimensione che affollano tutte le città del Paese. Un aspetto importante e per niente secondario da considerare è che in nessun momento, nonostante le ingenti misure di sicurezza e i blocchi che momentaneamente sono stati innalzati in alcune zone di Gerusalemme - e in gran parte già smantellati - mai la libertà di movimento di persone e merci da e verso i territori palestinesi è stata in alcun modo compromessa. Sono migliaia gli arabi dotati di regolare permessi di passaggio che dall’inizio della crisi sono regolarmente entrati in Israele senza intoppi per studiare e lavorare, e la convivenza pacifica in tutti quei locali e quelle aziende che vedono lavorare fianco a fianco israeliani e palestinesi non è mai venuta meno, e nemmeno a dispetto dei pronostici e delle preoccupazioni degli odiatori di Israele la sicurezza e la tranquillità degli arabi israeliani e di quel 20% degli studenti delle università di religione musulmana. Ciò che è morta ancora una volta sotto i fendenti del terrorismo degli islamisti e dei nazionalisti palestinesi - da sempre la vera ferita che periodicamente si apre e riprende a sanguinare - è la speranza di noi israeliani di poter trovare un giorno un interlocutore credibile nella controparte per poter arrivare a una vera pace. In particolare a costituire un trauma è il gran numero di aggressioni compiute non da “palestinesi “ ma da arabi israeliani apparentemente integrati nel tessuto del nostro Paese, dove hanno ricevuto pari opportunità, tutela e istruzione, però eletto a male assoluto da attaccare e distruggere. Siamo diventati, mi duole dirlo, più diffidenti. E’ inevitabile quando il vicino di casa che fino al giorno prima era tranquillo e apparentemente cordiale, un giorno nel nome di Al Aqsa e di Allah decide che il tuo destino è quello di morire, solo perchè sei un ebreo che è nato o ha deciso di vivere nella sua stessa terra. La nostra vera vulnerabilità è questa sensazione orrenda e costante di avere anche questo nemico “interno” che ci vuole vedere morti, nonostante condivida con noi praticamente tutto e non si fa mancare nessuno dei diritti che gli derivano dall’avere la cittadinanza israeliana. E’ un paradosso, ma in Israele - un Paese “giovane” e che proprio per questo dà grande spazio ai giovani e investe tantissimo in istruzione e innovazione - è proprio sul tema della sicurezza e della costruzione di un futuro di pace con i nostri vicini che noi ragazzi ci sentiamo al momento impotenti. Contribuiamo ogni giorno in ogni campo - dalla difesa alla ricerca scientifica - al progresso del nostro Paese e in prospettiva di tutta l’umanità come pochi altri giovani hanno possibilità di fare nel mondo : creiamo start-up e imprese di successo, combattiamo malattie devastanti e la fame, lanciamo satelliti in orbita che contribuiranno a tirare fuori l’Africa dall’analfabetismo digitale ma ogni volta che proponiamo una soluzione al conflitto che ci vede contrapposti agli arabi palestinesi troviamo dall’altra parte un muro fatto di odio e bugie. Sono in molti, ormai, ad essersi rassegnati a un inevitabile e tragico momento in cui un ennesimo conflitto totale e su larga scala non sarà più rinviabile. Israele è un Paese che per sopravvivere e prosperare chiede a noi che siamo i suoi giovani un prezzo altissimo: vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e al tempo stesso come se non si dovesse morire mai, difendendo con le unghie e con i denti quei piccoli e grandi riti che fanno quella cosa preziosissima chiamata quotidianità . Fare due o tre anni di servizio militare stanca. Sapere che per difendere la tua casa, la tua terra e la tua libertà sarai costretto a rimanere riservista fino ai cinquant’anni, in ogni momento di necessità richiamato sotto le armi, stanca. Ci vuole davvero tanta determinazione e un grande senso di appartenenza a questo popolo di ostinati unito a un amore incondizionato e sconfinato per questo piccolo fazzoletto di terra per rimanere piantati come alberi alle pendici di questo vulcano in continua eruzione . Credetemi, è davvero una gran fatica restare giovani tutta la vita per potersi permettere il lusso di invecchiare. Dario Sanchez |
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