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Il Messaggero Rassegna Stampa
05.11.2015 Omicidio Rabin: una interpretazione menzognera
Per Eric Salerno metà del Paese voleva la morte del leader laburista

Testata: Il Messaggero
Data: 05 novembre 2015
Pagina: 22
Autore: Eric Salerno
Titolo: «L'eredità di Rabin, un tesoro dimenticato da Israele»

Riprendiamo dal MESSAGGERO di oggi, 05/11/2015, a pag. 22, con il titolo "L'eredità di Rabin, un tesoro dimenticato da Israele", il commento di Eric Salerno.

Eric Salerno fa un ritratto di Israele nel 1994, alla vigilia dell'assassinio di Ytzhak Rabin, che non corrisponde a verità. E' vero che si erano svolte manifestazioni al grido di "Rabin traditore", ma è anche vero che queste avevano coinvolto una piccola minoranza tra la popolazione israeliana. Salerno, invece, descrive una frattura in due di un Paese che, nella quasi totalità, nutriva invece la speranza nella pace. Una speranza cancellata non dall'omicidio Rabin, ma dalla scelta di Yasser Arafat e della leadership dell'Olp di rifiutare ogni proposta di pace. Imperterrito, Salerno continua nella sua opera di mistificazione della storia d'Israele.

Ecco l'articolo:

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Eric Salerno

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Ytzhak Rabin

C’era un’aria di speranza quella sera a Tel Aviv. «È come l’inizio, nel ’48», mi confessò verso la fine della manifestazione un anziano ebreo, le lacrime agli occhi. Si riferiva alla nascita d’Israele. Itzhak Rabin, uno dei padri della patria, era in piedi sul palco e con la sua voce rauca per le troppe sigarette e l’alcol, leggeva dal foglio che qualcuno gli aveva messo in mano. E cantava: «No, non dite: Il dì verrà..., portatecelo voi!». Musica e liriche dell’inno dei pacifisti israeliani ricalcavano i canti popolari americani degli anni Sessanta. Allora era la contestazione della guerra in Vietnam; quel 4 novembre 1995, centinaia di migliaia di giovani e anziani gridavano la loro voglia di proseguire sulla strada avviata con gli accordi di Oslo, la storica firma sul prato della Casa bianca e la stretta di mano tra il premier israeliano e Yasser Arafat. Osservando la grande piazza (ora porta il nome del premier assassinato) e le vie adiacenti piene di bandiere e striscioni mi tornò alla memoria una sera del 1982 quando centinaia di migliaia di israeliani, molti degli stessi che vedevo davanti a me, erano arrivati da tutto il Paese per protestare contro l’invasione israeliana del Libano e la strage nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Come se fosse un concerto rock, la musica accompagnò l’attesa per i protagonisti della pace.

“Shalom”, pace, gridò l’ex sindaco di Tel Aviv prima di passare il microfono al ministro degli Esteri Shimon Peres. Poi toccò a Lui. «Ra-bin, Ra-bin, Ra-bin», scandiva l’enorme platea. Era una grande festa ma era già chiaro a tutti che Israele era divisa in due. L’atmosfera del Paese era permeata da odio e rabbia e una grande incertezza. Il premier ebbe parole di critica per la comunità ebraica americana che lo aveva accusato di mettere in pericolo d’esistenza stessa d’Israele. E altre parole di critica per coloro, in Israele, che si opponevano agli sforzi suoi e di Peres di arrivare alla pace anche con Damasco. Nulla disse dei suoi odiosi ritratti in divisa da SS nazista con cui la destra, o meglio il centrodestra con Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu in testa, lo criminalizzava: «Rabin è un traditore». O delle bare trascinate per le vie di Gerusalemme, Tel Aviv e altrove con lo slogan «Rabin, questa è per te». Non parlò nemmeno dei tanti rabbini che con termini presi dalla religione (Din moser…), emisero un editto e lo condannarono a morte per il reato di «aver ceduto la terra d’Israele». Rabin sorrideva quando cantava. Era un uomo estremamente riservato e forse si sentiva un po’ imbarazzato.

Di sicuro, il vecchio generale diventato statista, non aveva paura. Mi disse, anni prima: «La pace si fa con i nemici… un giorno parlerò con l’Olp». Ed era quello che aveva cominciato a fare senza rendersi conto, probabilmente, di quanti nemici aveva in casa. Secondo Shimon Peres, antagonista nel partito laburista ma partner negli accordi di Oslo, i servizi segreti erano preoccupati. Gli agenti dissero a lui e al premier di lasciare il palco separatamente. Temevano l’azione di terroristi arabi che volevano vendicare l’uccisione, pochi giorni prima, di un loro leader. Peres raggiunse la sua auto passando davanti all’assassino che aspettò Rabin. Era un ebreo e non un arabo e forse per questo non aveva attirato l’attenzione della polizia o delle guardie del corpo dei due statisti. Pochi minuti dopo, i tre spari.

Kikar Malchai Yisrael, piazza re d’Israele, si chiamava allora quello spazio enorme, era ancora in festa. La musica coprì i colpi. Ma non le sirene e il caos che ne seguì. «Hanno sparato a Rabin», «Sta bene», «No, è morto». Quaranta minuti dopo il suo arrivo in un vicino ospedale fu dato l’annuncio ufficiale. E chi era rimasto sulla piazza, pianse. La profonda spaccatura del popolo d’Israele si è consolidata negli ultimi venti anni. La pace che Rabin aveva cominciato a costruire appare sempre più distante e non soltanto perché la maggioranza degli israeliani guarda ai massacri nel mondo arabo che li circonda e ha paura. Sarebbe stato diverso se l’ebreo religioso Yigal Amir, il giovane assassino, non si fosse lasciato influenzare dai rabbini estremisti e dagli altri critici di Oslo? E’ una domanda a cui nessuno può rispondere. Come non ci sono spiegazioni convincenti a tutte le contraddizioni rilevate nella meccanica dell’assassinio. Ancora oggi la maggioranza degli israeliani, a destra e a sinistra, è convinta che Rabin fu vittima di un complotto.

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