Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/11/2015, a pag. 1-21, con il titolo "Come portare l'Europa ad Ankara", il commento di Stefano Stefanini.
Continua il dialogo, sulle pagine della Stampa, tra i due ex ambasciatori Stefano Stefanini e Roberto Toscano. Entrambi tacciono sulla natura sempre più islamista del regime di Erdogan in Turchia, ormai una dittatura che limita le libertà fondamentali dei cittadini e che sostiene esplicitamente gruppi terroristici come Hamas nella Striscia di Gaza.
"Il voto di domenica, pur sicuramente aiutato dalla campagna spregiudicata di Erdogan, riflette soprattutto il desiderio di governabilità del popolo turco, acuito dai recenti eventi sanguinosi", scrive Stefanini. Quella che definisce una "campagna spregiudicata" è la limitazione della libertà di parola, di stampa e di associazione, e che è incominciata con l'arresto delle voci critiche. I "recenti eventi sanguinosi" hanno avuto il risultato sperato da Erdogan, mandante morale delle stragi: la strategia della tensione che hanno innescato ha provocato la paura e, di conseguenza, il voto di massa al partito islamista.
La sindrome degli ex ambasciatori sul quotidiano torinese continua...
Ecco l'articolo:
Stefano Stefanini
Erdogan fa a fette la democrazia in Turchia. L'Europa, alla finestra, osserva in silenzio
Se Erdogan è il dilemma turco, la Turchia è il dilemma europeo. L’Europa l’ha lasciata da sola. La candidatura di Ankara è stata accettata dall’Ue nel 1999 (era stata presentata nel 1987). Circondata dalle sabbie mobili mediorientali, la Turchia secolare e occidentalizzata cercava di ancorarsi all’Europa. Ottenne la promessa di un negoziato al rallentatore. L’ascesa al potere di Erdogan e dell’Akp è avvenuta nel limbo dell’attesa e della delusione di una terra promessa che non si realizzava.
Giustamente, il mio «doppio collega» e amico Roberto Toscano, osservava ieri che un Erdogan «indispensabile ma illiberale» ipoteca in negativo il futuro della Turchia. Il rischio c’è: egli può facilmente interpretare la vittoria di domenica come una cambiale in bianco ed accentuare i tratti autoritari della sua presidenza. La stabilità di governo dell’Akp verrebbe così costare un caro prezzo al Paese, specie se s’intensificasse la repressione della libertà d’informazione, vero sale della democrazia.
La vittoria fa di Erdogan un interlocutore internazionale indispensabile. Per l’Europa, per gli Stati Uniti, per la Nato. Con chi altri parlare di Siria e di Isis? Sul piano interno il discorso è diverso.
Il conflitto fra indispensabilità e democrazia è latente in qualsiasi sistema. Di qui la saggezza del divieto di doppio mandato che l’America ha osservato scrupolosamente, con l’eccezione bellica di Franklin Roosevelt (e introdotto nella Costituzione dopo di lui). Molti altri Paesi, a cominciare dalla Francia, ne seguono l’esempio (persino in Italia, fa capolino con i Sindaci). E la democrazia trionfa proprio quando corre coscientemente il rischio di disfarsi, alle urne, di leaders all’apice del successo, come avvenne per Winston Churchill nel 1945, per George H. Bush nel 1992 o per Helmut Kohl nel 1998. Prova che nessuno è indispensabile.
Occorre però che il sistema sia in grado di assicurare la stabilità nel ricambio. E’ proprio questo che è mancato in Turchia. Sei mesi fa l’opposizione aveva vinto le elezioni, sia pure di stretta misura. E’ stata incapace di governare. Chi è causa del suo mal… La risposta della gente è stata di ridare la maggioranza all’Akp. Il voto di domenica, pur sicuramente aiutato dalla campagna spregiudicata di Erdogan, riflette soprattutto il desiderio di governabilità del popolo turco, acuito dai recenti eventi sanguinosi.
Certo, il voto non è condiviso da larghi segmenti della società urbana e secolare turca, che è quella con cui noi entriamo più frequentemente in contatto. Istanbul avrebbe scelto diversamente: ma come non si può identificare l’America con New York, così non si può capire la Turchia dal Bosforo e dai Dardanelli. C’è anche un’Anatolia che ha imparato a far sentire il suo peso. Anche questa è democrazia. È chiaro che i rapporti di Ankara con l’Ue passano attraverso il vaglio rigoroso del rispetto delle libertà democratiche e dei diritti umani. Nessuno sconto in una credibile candidatura.
Oggi tuttavia, all’indomani del voto, più che affrettarsi in giudizi l’Europa dovrebbe pensare a come rilanciare dialogo e collaborazione con la Turchia di Erdogan senza pregiudizi e (spesso) presunzioni. Non solo perché ne abbiamo bisogno per gestire l’emergenza rifugiati (quello appena convocato a Malta sarà il sesto Consiglio Europeo «straordinario» sui migranti) e per combattere terrorismo e Stato Islamico, ma perché o l’Europa arriva in Turchia o il Medio Oriente arriva in Europa. Tertium non datur.
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