Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/11/2015, a pag. 16, con il titolo "Il pugno di Erdogan sui media: retata di reporter e oppositori", il commento di Marta Ottaviani; a pag. 1-31, con il titolo "Erdogan indispensabile ma illiberale", il commento di Roberto Toscano preceduto dal nostro.
Ecco gli articoli:
Erdogan e la libertà di stampa imprigionata in Turchia
Marta Ottaviani: "Il pugno di Erdogan sui media: retata di reporter e oppositori"
Marta Ottaviani
Il quarto governo targato Akp e il presidente della Repubblica turca, Recep Tayyip Erdogan non hanno perso tempo, facendo capire a tutti, giornalisti, oppositori e terroristi separatisti, che la musica non cambia e che, forti dell’ampio mandato popolare conquistato domenica scorsa ai seggi elettorali, sono pronti a intervenire con forza contro tutti coloro che si metteranno sulla loro strada. Questo, in un Paese con un clima ovattato e che sembra sostanzialmente reagire con indifferenza agli eventi, e dove quasi la metà dei votanti ha scelto di nuovo il Partito islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) e soprattutto il suo fondatore, il presidente Erdogan, perché garanzia di crescita economica, sicurezza sul territorio e stabilità interna.
Gli arresti all’alba
La Turchia ieri mattina si è svegliata con la notizia che Cevheri Guven e Murat Capan, rispettivamente direttore e caporedattore del settimanale di inchieste Nokta, erano stati arrestati con le accuse di istigazione a delinquere ed eversione. La testata tre settimane fa aveva visto il suo sito bloccato dalla magistratura per aver pubblicato alcuni articoli che parlavano di forti contrasti interni all’interno dell’Akp e di una dirigenza sempre più insofferente al capo dello Stato. Ieri la versione cartacea è stata sequestrata dalle autorità per la sua copertina, che ritraeva Erdogan con sotto il titolo: «2 novembre, inizio della guerra civile in Turchia».
Obiettivo Gulen
Brutte notizie anche per il gruppo editoriale Koza Ipek, proprietario di due televisioni e due quotidiani e legato al filosofo islamico Fetillah Gulen, un tempo alleato di Erdogan e adesso inserito nella lista dei terroristi, che avrebbe perfino creato un’organizzazione segreta, uno Stato parallelo, pur di detronizzare il presidente della Repubblica. Il gruppo la settimana scorsa è stato prima commissariato e poi occupato dalla polizia. Ieri si è scoperto che la nuova dirigenza, che presenta uomini vicini all’Akp, ha licenziato 58 giornalisti. Alcuni di questi avevano già smesso di lavorare prima del voto di domenica. Sempre nel campo dei gulenisti, a Smirne e in altre 17 province sono finiti in manette in 35: fra di loro ci sarebbero alti burocrati e poliziotti.
Raid nel Sud-Est
Pugno duro anche con i curdi, sia che si tratti del partito politico Hdp, il Partito dei popoli democratici, rivelazione e delusione delle ultime elezioni, che del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione separatista e terrorista. Il vicepremier Yalcin Akdogan ha fatto sapere che i negoziati per la pace sono interrotti, nonostante Selahattin Demirtas, leader dell’Hdp, abbia chiesto la creazione di una commissione parlamentare ad hoc. Ieri l’aviazione della Mezzaluna ha bombardato obiettivi del Pkk nel Sud-Est turco e nel Nord dell’Iraq, mentre a Mardin, località a maggioranza curda, 11 persone sono finite in manette con l’accusa di collaborazione con organizzazione terroristica. Fra questi c’è anche un dirigente locale dell’Hdp.
Roberto Toscano: "Erdogan indispensabile ma illiberale"
Roberto Toscano riprende il commento di Stefano Stefanini (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=60174) e, pur attenuando le conclusioni del "doppio collega" (entrambi sono ex ambasciatori), non condanna esplicitamente il regime dittatoriale di Erdogan in Turchia. Persino Toscano, però, non può fare a meno di sottolineare la natura illiberale-è questo l'aggettivo che usa, ben lontano da quello più veritiero di liberticida del regime islamista turco e la sua vicinanza con movimenti terroristici, a partire da quelli che, come Hamas, fanno parte della Fratellanza musulmana.
Nonostante tutto ciò, comunque, Toscano lascia aperte le porte di ingresso nell'Unione europea per Ankara, pur sostenendo come sia un processo oggi difficile. Un'analisi, dunque, non coerente: se la Turchia appoggia il terrorismo e nega la libertà ai propri cittadini, come è possibile pensare a una legittimità della sua leadership e a un eventuale ingresso in Europa?
I commenti di Stefanini e Toscano, inoltre, sono anche in contraddizione con le cronache da Ankara e Istanbul scritte, in questi giorni sullo stesso quotidiano torinese, da Marta Ottaviani e Maurizio Molinari, e imperniate sulla negazione delle libertà voluta da Erdogan.
Stefanini ex ambasciatore, Toscano ex ambasciatore... non possono godersi la pensione e smetterla di scrivere castronerie ?
Ecco l'articolo:
Roberto Toscano
La vittoria di Erdogan è netta, e dalle urne emerge la possibilità di un governo stabile e capace di svolgere in modo efficace il proprio ruolo nel campo della sicurezza e dell’economia. La Nato potrà continuare a contare sul proprio tradizionale alleato nel suo sempre più critico scacchiere sud-orientale, mentre l’Unione Europea potrebbe, superando le note ostilità di alcuni dei suoi membri, rilanciare il discorso sul processo di adesione della Turchia. Nell’immediato, Ankara potrà dare il suo contributo a filtrare e rallentare quel flusso di profughi e migranti che tanta preoccupazione, e tante ripercussioni politiche, sta producendo nei Paesi Ue. Tutto vero, e si capisce perché sulle pagine di questo giornale Stefano Stefanini, mio «doppio collega» (prima in quarant’anni di diplomazia, oggi come collaboratori de La Stampa) definisca i risultati delle elezioni turche «una buona notizia».
Erdogan, scrive Stefanini, è «interlocutore indispensabile» non solo sui profughi ma anche sulla Siria. Ma è proprio questa attribuzione di «indispensabilità» a suggerire una mia riflessione che si discosta dall’analisi di Stefanini. Da un lato infatti, soprattutto in presenza di una personalità autoritaria come quella di Erdogan, l’essere considerato indispensabile corre il rischio di tradursi in una sensazione di arbitrio, se non impunità. Nostro alleato indispensabile, Erdogan ha appoggiato jihadisti di varie risme, compresi i più radicali, permettendo fra l’altro il libero transito di migliaia di «foreign fighters» che i servizi occidentali temono possano poi applicare nei Paesi di origine quanto appreso nei combattimenti in Siria e Iraq.
Nostro alleato indispensabile, sta dimostrando di avere della democrazia una visione illiberale, e in particolare di comportarsi nei confronti della libertà di stampa con crescente durezza repressiva.
Non è certo «colpa dell’Europa» se Erdogan vince le elezioni, ma non è possibile sottovalutare il significato politico della visita di Angela Merkel - una visita che, praticamente alla vigilia delle elezioni - ha costituito oggettivamente un avallo politico al Presidente turco.
Come europei, assieme agli americani, abbiamo una lunga e spesso disgraziata storia di rapporti con leaders «indispensabili». Era indispensabile, in un contesto di Guerra Fredda, lo Shah di Persia. Era indispensabile Gheddafi: per noi italiani in quanto «l’amico Mouammar» svolgeva il compito di fermare o quanto meno ridurre il flusso di sbarchi sulle nostre coste; per gli americani perché reprimeva gli islamisti; per tutti perché era sicuro fornitore di idrocarburi. Era indispensabile Mubarak, perché manteneva l’Egitto collegato con l’Occidente e lontano dal radicalismo islamista. Oggi è indispensabile Sisi, e cerchiamo di non pensare a quale possa essere il futuro orizzonte dell’Egitto. Persino Assad era, fino al 2011, indispensabile: non dimentichiamo i rapporti, buoni nella sostanza anche se non ostentati, che intratteneva con americani ed europei, contenti della stabilità dello Stato siriano e del fatto che garantisse lo status quo della frontiera con Israele sul Golan.
Gli «indispensabili» però tendono ad avere un enorme difetto. Con la loro politica di repressione, corruzione, nepotismo, inefficienza economica, non costruiscono consenso, ma si mantengono al potere grazie all’uso politico degli strumenti di controllo dello Stato, dall’economia alla politica alla sicurezza interna (lo «stato profondo»), e al soffocamento della società civile. La stabilità che garantiscono è autentica, ma spesso effimera. Di colpo, la sorpresa: possono entrare in crisi, possono essere rovesciati. A quel punto da indispensabili diventano reietti, infetti, e noi (americani ed europei) ci schieriamo con scarsa credibilità e spesso con risultati disastrosi con le forze che puntano a rovesciarli. Dopo aver puntato troppo a lungo sulla stabilità trascurando i nostri principi e i diritti di popolazioni oppresse da dirigenti che avalliamo ed appoggiamo, ci convertiamo da un giorno all’altro in paladini del cambiamento rivoluzionario, un cambiamento che in Paesi dalla fragile statualità e ancora più fragile società civile si traduce in collasso dello Stato e frammentazione settaria se non tribale. Oscilliamo cioè tra avallo a dirigenti autoritari e repressivi e connivenza con lo smantellamento dello Stato. Prima corresponsabili con la dittatura, poi con l’anarchia.
La Turchia non è certo né la Libia né la Siria. E’ un Paese avanzato sia economicamente sia culturalmente, un Paese dall’enorme potenziale, un Paese di cui possiamo continuare ad appoggiare - come noi italiani abbiamo sempre fatto - un cammino di avvicinamento all’Unione Europea. Ma il deteriorarsi della democrazia trasformata in regime plebiscitario da un leader illiberale e intollerante e il rischio di un riaccendersi e inasprirsi dello scontro armato con i curdi del Pkk potrebbero innescare una spirale in cui la stabilità garantita dal trionfo elettorale di Erdogan potrebbe trasformarsi in drammatica instabilità.
La Turchia deve rimanere un interlocutore privilegiato, ma se vogliamo accompagnarla verso un futuro migliore per i suoi cittadini e per noi stessi andrebbe evitato di dare carta bianca all’arbitrio e all’avventurismo politico senza per questo essere attratti dalla irresponsabile prospettiva del collasso di un governo che per ora non ha alternative. Dialogo critico, quindi, non avallo incondizionato. E soprattutto sottraendoci al ricatto della «ndispensabilità».
Non facile compito. Ma abbiamo strumenti sia politici sia economici, oltre alla prospettiva di un cammino verso l’adesione, per portarlo avanti. Abbiamo bisogno della Turchia, vogliamo la Turchia come alleato e partner - ma una Turchia in cui la democrazia non sia solo quella delle elezioni, ma delle libertà, del pluralismo e - va aggiunto - anche di una laicità compatibile, contro ogni dogma laicista, con la libera presenza della religione nello spazio pubblico, ma non con le pretese di egemonia sulla politica.
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