Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/10/2015, a pag. 11, con il titolo "Tra i soldati italiani in Iraq: 'Così addestriamo i peshmerga' ", l'analisi di Francesco Semprini.
Francesco Semprini
L'addestramento dei peshmerga a Erbil
Il tricolore si gonfia al vento che accarezza le distese polverose a ridosso della città. Bianco, rosso e verde, i colori dell’Italia ma anche quelli del Kurdistan meridionale, la regione autonoma nel Nord iracheno. Le due bandiere sventolano l’una accanto all’altra mentre un bosco di mimetiche le saluta militarmente. Siamo nei pressi di Erbil, è qui che si svolgono le attività di «Prima Parthica», la legione romana che dà il nome alla missione di addestramento dei peshmerga, le forze curde che si battono contro lo Stato islamico.
Operativi da 9 mesi
Gli italiani ne sono la spina dorsale, per leadership e per numero di personale impiegato e addestrato. Il «Kurdish Training Coordination Center» è infatti a guida italiana con 200 Paracadutisti della «Folgore», e un totale di 1500 peshmerga addestrati solo dall’Italia dal gennaio 2015. A partecipare alle attività sono anche Germania, Gran Bretagna, Norvegia, Finlandia, Olanda e Ungheria, quasi 600 militari in tutto impiegati nell’addestramento di base di fanteria. Sono 5 mila invece i peshmerga preparati in oltre nove mesi di attività. «Uno sforzo significativo specie perché si inquadra in uno scenario molto complesso», dice il colonnello Alpino, comandante del contingente italiano e della forza multilaterale che si occupa di preparazione militare. È lui che ci accoglie al campo facendo il punto sulla intricata situazione interna al Kurdistan e sull’importanza del contributo addestrativo nella lotta all’Isis. Come il bilancio dei caduti tra i peshmerga, 1500 dall’inizio della guerra nel giugno 2014, ma con un deciso rallentamento dopo l’inizio della missione nel gennaio 2015. I baschi amaranto conducono le attività nei centri di addestramento di Atrush, Manila e Benaslava, non lontano dalla capitale curda. Alcuni addestrati sono già stati al fronte e vi faranno ritorno una volta ottenuto il diploma degli istruttori.
La nostra prima tappa è Benaslava, per l’addestramento di fanteria di base, e un corso da poco avviato sulle trappole esplosive, i famigerati «Ied». «Ci hanno chiesto di aiutarli perché molti sono morti saltando sulle bombe che gli jihadisti disseminano in ritirata», ci spiega il maggiore Antonio (i nomi sono di fantasia per questioni di sicurezza). È lui che ci guida in questo viaggio tra gli italiani impegnati nella lotta alle bandiere nere del Califfato. Ci dice che molte «reclute» non sono militari di professione ma riservisti richiamati dal ministero dei peshmerga per combattere contro l’Isis. «Spesso non hanno equipaggiamento, non hanno mimetiche - racconta -, e a volte si addestrano con i mocassini». «Abbiamo dovuto insegnar loro a tenere un’arma in mano, a volte occorre partire da zero o quasi», rivela il capitano Falco supervisore delle attività di addestramento.
Nella «scuola italiana», però, ci sono anche gli Zeravani, una sorta di corpi di élite, tutti volontari delle forze di sicurezza curde. Nelle cinque settimane vengono impartite nozioni di base su tiro al bersaglio con fucili di precisione M93 Zastava di fabbricazione serba, addestramento sulle postazioni difensive, vita in trincea e primo soccorso. «Viene dato più spazio all’una o all’altra attività in base alle indicazioni che ci danno i vertici peshmerga - prosegue il capitano -. In ogni caso la priorità è minimizzare le perdite, sopravvivere in guerra e poi combattere meglio».
Ci spostiamo verso Nord nella caserma Kanikarzala dove il team «Advice and Assistant» dei Parà ha avviato l’addestramento sull’impiego dell’artiglieria con attività sul campo e lezioni di topografia, comunicazione, disciplina del fuoco oltre all’impiego efficace e sicuro degli armamenti, ovvero minimizzare gli incidenti e ridurre gli sprechi di munizioni. «Il livello di partenza è basso, alcuni sono analfabeti - ci spiega il maggiore Obice, artigliere paracadutista e supervisore del programma -. Ma sono persone ricettive e motivate», perché sentono la missione «sacrale» della lotta all’Isis.
Armi e solidarietà
È la visione di insieme, ovvero la tattica, che manca ai soldati curdi, e «si cerca di sopperire senza cedere a eccessive pressioni, sarebbero controproducenti». Anche le attività di addestramento sono rispettose della cultura e degli usi dei curdi, perché «la buona riuscita della preparazione dipende anche da questo», ci dice il capitano Antonio. Ma il problema di questa guerra alle bandiere nere è che mancano mezzi adeguati: «Siamo grati agli italiani per l’aiuto che ci danno, il problema è che non abbiamo armi e strumenti efficienti, è quello che chiediamo ogni giorno alla Coalizione», ci dice il colonnello Tawfiq Duski, un reduce di Kobane. Per questo si usano gli strumenti di tutti i giorni, come le mappe degli «smartphone» in supporto ai vecchi goniometri per sparare con i mortai. «Le armi non saranno moderne ma tutti hanno un telefono di ultima generazione», dice il maggiore Obice. C’è poi il grande senso di solidarietà del popolo curdo: «Vengono qui e portano di tutto ai soldati, pane, coperte e capre».
Al termine delle attività si torna al campo base di Erbil, la «Casa Italia» che ospita anche militari ungheresi (altra bandiera bianca, rossa e verde). La mensa (con menù curdo-italico) è anche sala tv: appuntamento fisso con calcio e motori, in un clima di goliardia al quale non si sottrae neanche il colonnello Alpino, napoletano di sangue ma juventino di fede. «Role 1» è l’ospedale da campo, infermeria e piccola chirurgia, dove ci lavorano tredici militari ai quali è stata appuntata una «simbolica medaglia al merito» dal generale Usa Ray Odierno, costretto a una cura d’emergenza durante una visita lampo. A dimostrazione che ogni sforzo è necessario nella guerra alle bandiere nere dello Stato islamico.
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