Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/10/2015, a pag. 23, con il titolo "Primo Levi, la chiave a stelle e strisce", l'analisi di Ernesto Ferrero.
Ernesto Ferrero
Primo Levi
Eccolo finalmente il cofanetto con i tre eleganti tomi in rigoroso bianco e nero dei Complete Works, il tutto Primo Levi in inglese, onore mai concesso nemmeno a Dante, Machiavelli, Montale o Calvino. Dai dorsi dei volumi che ospitano una sua foto, il Primo degli ultimi anni, barba bianca e grandi occhiali cerchiati, ci guarda con l’attitudine severa di chi è abituato a navigare i mari estremi della ricognizione del Male.
Di questa impresa che onora l’editoria americana, e in particolare la Liveright di Robert Weil, divisione della W.W. Norton, parlano anzitutto i numeri. Quindici anni di lavoro, tremila pagine che seguono l’edizione delle Opere complete Einaudi del 1997, un team di nove traduttori coordinati da Ann Goldstein, copy-editor del New Yorker, traduttrice essa stessa (Calasso, Pasolini, Bilenchi, da ultimo Elena Ferrante) e componente dell’eroica pattuglia che ha volto in inglese lo Zibaldone di Leopardi. Ogni opera viene restituita alla sua integrità e al titolo «giusto» (nel 1959 Se questo è un uomo era diventato un banale Survival in Auschwitz, e il minaccioso La tregua, che rimanda all’idea di un intermezzo inquietante, cambiato nel buonista The reawakening).
Consulenza torinese
Nell’impresa, che sarà presentata a maggio alle Nazioni Unite, c’è una forte componentistica torinese, grazie alla decisiva collaborazione del Centro di studi Primo Levi diretto da Fabio Levi: la consulenza alle traduzioni, gli apparati storico-critici e la bibliografia di Domenico Scarpa, la fortuna critica nel mondo ricostruita da Monica Quirico, la cronologia redatta da chi scrive. A New York hanno aggiunto due preziose cartine con i luoghi leviani, a Torino e in Piemonte: la casa di corso Re Umberto e quelle di amici e parenti, le scuole, le librerie, la Einaudi, La Stampa, persino la prima sede della fabbrica di vernici al fondo di corso Regina Margherita. E poi le amate montagne, i luoghi di vacanza, la Avigliana della fabbrica in cui cominciò a scrivere Se questo è un uomo
in pausa pranzo, la Bene Vagienna da cui il nonno Michele mosse verso Torino nel 1848.
Gli accurati «risvolti» guidano il lettore di lingua inglese alla scoperta di un autore complesso e stratificato che non ha mai finito di dire quel che ha da dire e va ben oltre l’etichetta riduttiva del testimone che per anni l’ha ingabbiato: un poliedro che assomma in sé il memorialista, il narratore, il saggista, il poeta, l’elzevirista, l’etologo, il linguista, l’antropologo.
L'edizione delle opere complete in inglese
La lettura di Toni Morrison
L’introduzione è firmata dal Nobel Toni Morrison. L’affermazione dei valori umani sulle patologie distruttive, scrive, brilla in ogni pagina di Levi, insieme a una conoscenza profonda (e dissimulata, aggiungo io) di tante fonti antiche e moderne, dalla poesia alla filosofia alle scienze, da Omero e Dante a Eliot e a Rilke. Lo scavo nelle miniere del linguaggio gli consente di cogliere un elemento-chiave, l’incomunicabilità che ad Auschwitz separa vittime e aguzzini.
Tradurre, cioè mettere a confronto due sistemi linguistici diversi è una pratica altamente formativa che bisognerebbe introdurre nelle scuole. L’edizione Liveright apre il capitolo complesso e fascinoso di cosa significhi tradurre un autore come Levi, apparentemente «facile», che ha fatto della chiarezza una scelta programmatica, e quali problemi comporti. La nitidezza della pagina di Levi, come quella di Calvino o di Flaubert, è accuratamente costruita: nasce da una tale calcolata sintassi, da un ritmo interno, da un lessico così preciso, che volgerla in un’altra lingua è difficilissimo. Tanto per cominciare: come tradurre i «mitragliatori imbracciati» di cui si parla nella seconda pagina della Tregua se l’inglese non conosce un corrispondente di «imbracciato»?
Ma c’è una domanda ben più sottile, e se la è già posta Domenico Scarpa nel suo dialogo con Ann Goldstein nella sesta «Lezione Primo Levi», pubblicata da Einaudi. In che lingua scrive Primo Levi per raccontare una nuova, perversa forma di modernità, il potere assoluto di un’ideologia razzista più lo sterminio come industria? Il suo italiano non corrisponde al canone imperante nella primavera neorealista. È la lingua di chi ha fatto ottimi studi al Liceo d’Azeglio e ha ottime letture alle spalle, una scrittura di una compostezza già classica sul nascere, ma anche attenta a recepire e riprodurre i suoni minacciosi del Lager, a inglobare nuovi linguaggi, gerghi e dialetti, a esplorare nuovi ambiti espressivi. È un’invenzione che il primo dopoguerra non era ancora pronto a riconoscere e decodificare.
L’attrito linguistico
Lo aveva detto lo stesso Levi: «Chi parla un’altra lingua è lo straniero per definizione, l’estraneo, lo “strano”, il diverso, il nemico potenziale, “un quasi-non-uomo”». L’attrito linguistico tende a diventare attrito razziale. L’eterna guerra che gli uomini si conducono è figlia di Babele. Tradurre è l’anti-Lager. Per questo, dice, i traduttori dovrebbero essere onorati, perché si adoperano «per limitare i danni della maledizione di Babele», che ci rende tanto aggressivi. Tra i tanti messaggi in bottiglia di Primo Levi c’è anche questo, e l’edizione americana ci aiuta a recepirli e meditarli meglio.
Peccato che la prima recensione, quella di Tim Parks sulla New York Times Review of Books sia un mezzo infortunio critico, perché «buca» clamorosamente la complessità e ricchezza del poliedro Levi, in cui tutto si tiene, cercando con una punta di malevolenza di cogliere il testimone in presunti peccati d’invenzione. Tra i quali ci sarebbe anche quello di «fare la vita molto più interessante di quello che è». Ma non è proprio questo il compito della letteratura? Per fortuna l’opera di Levi ha superato con la sua forza ben altri fraintendimenti.
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