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La pecora nera Non ho mai capito fino in fondo le ragioni per cui in Italia il genere biografico e autobiografico abbia così scarsa fortuna. Tantomeno quando, come in questo caso, l’autobiografia porta la firma di un fuoriclasse quale Israel Joshua Singer, fratello e mentore del più famoso Isaac Bashevis, premio Nobel per la letteratura nel 1978. In La pecora nera Singer ripercorre i suoi primi anni di vita nel minuscolo villaggio polacco di Leoncin. Suo padre è rabbino e la madre, se possibile, è ancor più ferrata del marito nella conoscenza delle Sacre Scritture. Ma il piccolo Yehoshua manifesta da subito tutta la sua insofferenza verso la Torah, come verso il Talmud. Non sopporta lo studio inflittogli metodicamente dei grandi testi religiosi e ancor meno la gabbia comportamentale che ne discende. Al contrario, ama la vita brada, selvaggia. Passerebbe giornate intere a osservare mucche e cavalli («avrei ceduto tutti i Talmud del mondo per un solo nitrito»), gli piace fare banda con i ragazzini più poveri e scapestrati, rimane incantato davanti alle mirabolanti vicende che la bizzarra popolazione dello shtetl gli offre quotidianamente. Con passo regale, Singer ci trasporta in un mondo assieme realissimo e fantastico, quello dell’ebraismo dell’Europa orientale tra Otto e Novecento, stretto tra una legge religiosa ammantata da mille superstizioni e lo scettico disincanto di cui il piccolo Yehoshua si fa alfiere allegro e spavaldo. «Tutto era peccato. Dire che reb Meir, il maestro, era un pazzo, era peccato. Acchiappare mosche di sabato era peccato. Correre era peccato, perché non si addiceva a un bravo bambino ebreo, ma a un monellaccio gentile. Dormire senza la kippah, anche nelle caldi notte d’estate, era peccato. Stare inginocchiato sulla panca era peccato. Disegnare omini era peccato». In buona sostanza, era peccato vivere appieno l’esistenza nella sua caotica e fascinosa sensualità. Ma a fronte di questo diktat religioso, Yehoshua non piega certo il capo. Mai rinuncerebbe a fare a sassate, a rubare la frutta, a godersi le meraviglie della natura, a sbirciare sotto le gonne delle donne più belle del paese, ad ascoltare i fantasiosi racconti su risse, incendi, malocchio, ladri di cavalli, zingari, soldati. Commenta Singer pensando retrospettivamente ai duri anni dell’infanzia: la Torah è un carcere, così come lo sono il timore di Dio e i rigidi precetti religiosi dell’ebraismo. Il mondo non è affatto vanità, al contrario è bello e pieno di gioia. Naturale che un bambino intenda goderne fino all’ultima stilla. «Più mio padre si sforzava di proteggermi dal mondo esterno e di tenermi prigioniero nei testi sacri, più il mio desiderio di vita si faceva prepotente». Così si decide il destino di Israel Joshua Singer: il mondo perderà un potenziale studioso del Talmud, ma, per converso, vedrà nascere un nuovo, formidabile narratore. Franco Marcoaldi - La Repubblica |
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