Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/10/2015, a pag. 25, con il titolo "E' la cecità che muove la storia", l'intervista di Leonardo Martinelli a Marc Ferro.
Questa intervista è un caso tipico di cecità occidentale: non quella che vorrebbe descrivere, ma quella, paternalistica, secondo cui soltanto gli errori e le incomprensioni storiche dell'Occidente vanno considerate, e non quelle altrui. Nel caso dello Stato islamico, per esempio, Ferro non spende una parola per condannarlo come fenomeno, appunto, islamico (in base al nome stesso scelto da chi lo ha fondato), ma si dilunga sulla "cecità" dell'Occidente. Forse si riferisce alla sua? Penoso il finale, quando ricorda l'uccisione della madre a Auschwitz.
Ecco l'intervista:
Leonardo Martinelli
«L’Isis? Gli occidentali non l’hanno visto arrivare: una forma di cecità di fronte alla storia, anche la più recente. Perché già dalla rivoluzione iraniana era chiaro che l’integralismo islamico aveva un solo obiettivo: distruggere gli Stati-nazione per dominare il mondo». Parla dall’alto dei suoi 90 anni Marc Ferro, tra i maggiori storici francesi. Sommerso dai libri, nel suo piccolo studio. «C’è anche l’atlante storico che pretesi come regalo a nove anni, per aver superato un esame di nuoto. La storia è una vecchia passione». Grande specialista dell’Urss («Mai stato comunista, né anticomunista, ma sempre un uomo di sinistra»). Ancora oggi l’uscita di un suo libro è un evento a Parigi. L’ultimo si intitola L’aveuglement, pubblicato da Tallandier, sull’accecamento dei grandi dirigenti o di persone molto normali rispetto alla storia che stanno vivendo.
Marc Ferro
È l’ideologia che acceca?
«Non sempre: spesso è il razzismo a offuscare la mente. I francesi nelle loro colonie, fino all’ultimo, non potevano pensare che degli arabi, dei malgasci, dei vietnamiti sarebbero stati capaci di organizzare e strutturare una sollevazione politica. Solo per razzismo».
Ritorniamo all’Isis.
«La cecità rispetto all’integralismo islamico riposa su una concezione europea della storia. Ai tempi della rivoluzione iraniana l’islam si allea agli inizi con i partiti della sinistra. Nell’Occidente sono sicuri che poi si metterà da parte: si pensa che lo Stato si servirà della Chiesa, come è sempre accaduto, almeno in Europa. E invece avviene il contrario. È la prima volta che l’islam giudica che lo Stato-nazione è il nemico, che va distrutto».
Perché?
«Perché gli Stati-nazione dividono l’islam. Quei leader islamici riprendono il ragionamento dei socialisti secondo i quali gli Stati-nazione dividevano la classe operaia. Vari anni dopo sono andato a tenere una conferenza in un’università marocchina. Alla fine i docenti mi consegnarono un pacchetto: ecco un regalo per te, mi dissero. Ma avrei dovuto aprirlo solo al mio ritorno a Parigi».
Cosa era?
«Un libro, dal titolo islamizzare la modernità. Sulla copertina c’era un immenso grattacielo, composto di cifre, e in cima la bandiera dell’islam. Insomma, la dominazione del mondo. Era il 1997, quattro anni prima delle Torri gemelle».
In L’aveuglement lei cita anche i casi di normali cittadini piombati in mezzo alla storia con la S maiuscola. E che restano inesorabilmente ciechi. Un esempio?.
«Ho ritrovato la lettera di un medico delle SS, di quelli che facevano esperimenti sugli ebrei nei Lager. Alla moglie descrive il tran-tran quotidiano. Dice che fa il suo “lavoretto”. Non si rende conto che commette un crimine contro l’umanità. È accecato, ma lo fa con grazia».
Lei fu uno dei primi storici a capire che l’Urss sarebbe crollata.
«Ma il primo in assoluto che fece quella predizione e in modo matematico fu Emmanuel Todd. Era la metà degli Anni 70. Vide che la mortalità infantile cresceva nell’Urss, in controtendenza rispetto agli altri paesi industrializzati. Capì che il declino del colosso comunista era iniziato».
Chi tra i grandi statisti del ’900 non è rimasto cieco?
«Franklin D. Roosevelt è stato uno dei più lucidi. Prima della Seconda guerra mondiale volle aiutare gli ebrei, già nel mirino dei nazisti che però al momento si limitavano a spingerli con ogni mezzo fuori dalla Germania. I Lager allora non li immaginava nessuno. Roosevelt accolse tantissimi ebrei negli Stati Uniti. Organizzò alcuni vertici internazionali perché altri paesi facessero altrettanto. Ma nessuno li voleva. La lucidità di Roosevelt è stata tale che ha accecato pure gli altri».
In che senso?
«Un sondaggio alla fine del ’39 indicava che solo il 2% degli americani era favorevole a un intervento degli Usa accanto a inglesi e francesi. E il Congresso era isolazionista. Ma Roosevelt voleva aiutare le democrazie occidentali. Aveva già iniziato a parlare fin dal ’37 di una necessaria “quarantena” da imporre a certe nazioni, “perché siamo minacciati da una peste che è il nazismo”. Per lui le cose erano chiare. Cercò di convincere i suoi connazionali senza parlare esplicitamente di guerra: in un certo senso li accecò. Poi i giapponesi attaccarono per primi, ritenendo che gli americani mai e poi mai avrebbero partecipato a quel conflitto mondiale. Si fecero fuorviare dall’atteggiamento ambiguo di Roosevelt. Non solo, pensavano che negli Stati Uniti avrebbero guardato ai costi di un conflitto. E avrebbero rinunciato, perché consideravano quello americano un popolo troppo materialista, senza ideali. I giapponesi non capirono Roosevelt e quella realtà storica in movimento: ciechi pure loro».
Altri visionari?
«Curzio Malaparte viaggiò a Mosca nel 1928. Lo ricevette Olga Kameneva, la moglie di Kamenev e sorella di Trockij. Parlava come un disco rotto della loro rivoluzione fatta dalla classe operaia. Malaparte non si lasciò abbindolare. Vedeva bene i limiti del sistema».
Anche nella sua vita vissuta, lei si è ritrovato al centro di tristi momenti della grande storia. Sua madre fu deportata ad Auschwitz nel 1942 e non fece più ritorno. Si arruolò a vent’anni nella Resistenza nel 1944...
«... poi ho insegnato a Orano, in Algeria, dal 1948 al ’56, in quegli anni così difficili».
Si è ritrovato anche lei accecato dinanzi alla storia? Rispetto alla sorte di sua madre?
«Non ho immaginato un solo istante che non sarebbe ritornata. Nel maggio 1945, come molti altri, sono andato all’hotel Lutetia di Parigi, dove si attendevano i sopravvissuti. L’avevano fermata per strada in città, due anni prima, solo perché aveva la stella di David messa male sul vestito: solo per quello. Per me mamma doveva tornare a casa».
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