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Il Manifesto Rassegna Stampa
13.10.2015 Giornalismo criminale: il terrorista pluriassassino Barghouthi in prima pagina sul Manifesto
Ma per il quotidiano comunista è un 'Mandela palestinese'

Testata: Il Manifesto
Data: 13 ottobre 2015
Pagina: 1
Autore: Marwan Barghouthi
Titolo: «'Nuova Intifada': lottiamo per la libertà»

Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, a pag. 1-7, con il titolo " 'Nuova Intifada': lottiamo per la libertà", l'intervento di Marwan Barghouthi.

Pazzesco. Così in basso neppure l'unico foglio di propaganda che ancora, in Italia, ha la faccia tosta di definirsi "comunista" non era mai giunto. Oggi, in prima pagina, il Manifesto pubblica un intervento di Marwan Barghouthi.

Chi è Barghouthi? E' davvero 'il Mandela palestinese', come viene definito dal catenaccio del giornale? No, non lo è. E', al contrario, un tristemente celebre terrorista, dichiarato colpevole di 21 capi di imputazione per omicidio e condannato da un regolare tribunale a 5 ergastoli per 5 omicidi (anche se ne ha organizzati e compiuti molti di più). Attualmente vive in Israele, nella prigione di Hadarin, e non certo in condizioni terribili, visto che anche da lì continua a incitare al terrorismo e all'antisemitismo, facendosi promotore, tra l'altro, di campagne come Bds e scrivendo articoli come quello che riproponiamo di seguito.

La lettura di questa pagina è molto istruttiva per redersi conto non tanto di chi sia Barghouti - non è certo l'unico terrorista assassino - ma soprattutto di che cosa sia il quotidiano che lo pubblica. Giornalismo criminale.

Ecco l'articolo:

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L'assassino Barghouthi, in prima pagina sul Manifesto

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L'escalation di violenze non è cominciata con l'uccisione di due coloni israeliani, è cominciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono palestinesi uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno il colonialismo avanza, l'assedio del nostro popolo a Gaza continua, oppressioni e umiliazioni si susseguono. Mentre molti oggi ci vogliono schiacciati dalle possibili conseguenze di una nuova spirale di violenza, io continuerò, come ho fatto nel 2002, a chiedere di guardare alle cause che sono alla radice della violenza: il rifiuto della libertà ai Palestinesi.

Alcuni hanno detto che il motivo per cui non si è raggiunto un accordo di pace è stata la mancata volontà del defunto Presidente Yasser Arafat o l'incapacità del Presidente Mahmoud Abbas, mentre sia l'uno che l'altro erano disposti e capaci di firmare un accordo di pace. Il vero problema è che Israele ha scelto l'occupazione al posto della pace ed ha usato i negoziati come una cortina di fumo per portare avanti il suo progetto coloniale. Tutti i governi del mondo conoscono questa semplice verità, eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fallite del passato ci potrebbe permettere di raggiungere libertà e pace. Follia è continuare a fare sempre la stessa cosa e aspettarsi che il risultato cambi.

Non ci può essere negoziato senza un chiaro impegno di Israele a ritirarsi completamente dal territorio palestinese che ha occupato nel 1967 (tra cui Gerusalemme), una completa cessazione di tutte le pratiche coloniali, il riconoscimento dei diritti inalienabili dei Palestinesi, compreso il loro diritto all'autodeterminazione e al ritorno, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo convivere con l'occupazione, e non ci arrenderemo all'occupazione. Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occasioni e occasioni per raggiungere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. Forse val la pena ricordare al mondo che, per noi, espropriazione, esilio forzato, trasferimento e oppressione durano ormai da quasi 70 anni e che noi siamo l'unico problema bloccato nell'agenda dell'Onu dalla sua fondazione.

Ci è stato detto che se ci affidavamo a metodi pacifici e alla strada della diplomazia e della politica, ci saremmo guadagnati l'appoggio della comunità internazionale per porre fine all'occupazione. Eppure, come già era avvenuto nel 1999 alla fine del periodo di interim, la comunità internazionale non ha intrapreso alcuna azione significativa, come ad esempio costituire una struttura internazionale per applicare la legge internazionale e le risoluzioni delle Nazioni unite, varare misure per garantire la responsabilizzazione delle parti, anche attraverso boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, come era stato fatto per liberare il mondo dal regime dell'apartheid. E allora, in mancanza di un intervento internazionale per porre fine all'occupazione, in mancanza di una seria azione dei vari governi per interrompere l'impunità di Israele, in mancanza di qualunque prospettiva di protezione internazionale per il popolo palestinese sotto occupazione, e mentre il colonialismo e le sue manifestazioni violente hanno un'impennata (compresi gli atti di violenza dei coloni israeliani), cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspettare che un'altra famiglia palestinese sia bruciata, che un altro giovane palestinese sia ucciso, che un altro insediamento sia costruito, che un'altra casa palestinese sia distrutta, che un altro bambino palestinese sia arrestato, che i coloni facciano un altro attacco, che ci sia un'altra aggressione contro il nostro popolo a Gaza?

Tutto il mondo sa che Gerusalemme è la fiamma che può ispirare la pace e che può accendere la guerra. E allora perché il mondo rimane immobile mentre gli attacchi israeliani contro i Palestinesi della città e contro i luoghi santi musulmani e cristiani - specialmente Al-Haram Al-Sharif - continuano senza sosta? Le azioni e i crimini di Israele non distruggono soltanto la soluzione dei due stati secondo i confini del 1967 e non violano soltanto la legge internazionale, ma minacciano di trasformare un conflitto politico risolvibile in una guerra religiosa senza fine che indebolirà ulteriormente la stabilità in una regione che è già preda di un disordine senza precedenti.

Nessun popolo della terra accetterebbe di convivere con l'oppressione. È nella natura dell'uomo anelare alla libertà, lottare per la libertà, sacrificarsi per la libertà. E la libertà del popolo palestinese è in grave ritardo. Durante la prima Intifada il governo di Israele lanciò lo slogan «spezza le loro ossa per spezzare la loro volontà» ma, una generazione dopo l'altra, il popolo palestinese ha dimostrato che la sua volontà è indistruttibile e non deve essere messa alla prova. Questa nuova generazione palestinese non ha aspettato colloqui di riconciliazione per incarnare quell'unità nazionale che i partiti politici non hanno saputo raggiungere, ma si è posta al di sopra delle divisioni politiche e della frammentazione geografica. Non ha aspettato istruzioni per sostenere il suo diritto, e il suo dovere, di opporsi a questa occupazione. E lo fa disarmata, di fronte ad una delle maggiori potenze militari del mondo. Eppure continuiamo ad esser convinti che libertà e dignità trionferanno, e noi avremo la meglio. E che quella bandiera che abbiamo innalzato con orgoglio all'Onu sventolerà un giorno sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, e non per un giorno ma per sempre.

Mi sono unito alla lotta per l'indipendenza palestinese 40 anni fa e sono stato imprigionato per la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di adoperarmi per una pace basata sulla legge internazionale e sulle risoluzioni dell'Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occupante, distruggere metodicamente questa prospettiva un anno dopo l'altro. Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di questa immutabile verità: l'ultimo giorno dell'occupazione sarà il primo giorno della pace. Coloro che cercano quest'ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione.

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