Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/10/2015, a pag. 6, con il titolo "Il Nobel ai democratici tunisini, vince il quartetto delle riforme", il commento di Maurizio Molinari; a pag. 1-23, con il titolo "Premiato chi non si rassegna al terrorismo", l'analisi di Domenico Quirico.
Ecco gli articoli:
Il 'Quartetto del dialogo nazionale' tunisino
Maurizio Molinari: "Il Nobel ai democratici tunisini, vince il quartetto delle riforme"
Maurizio Molinari
«Hanno dato un contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia dopo la Rivoluzione dei Gelsomini del 2011»: con questa motivazione il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato al «Quartetto del dialogo nazionale» tunisino a quasi cinque anni di distanza dal drammatico gesto di protesta con cui il venditore ambulante Mohamed Bouazizi diede inizio alla ribellione contro il regime di Ben Alì, innescando la stagione delle Primavere Arabe in Medio Oriente e Nord Africa.
La scelta del comitato norvegese del Nobel è stata di premiare con l’assegno da 960 mila dollari «il Quartetto in quanto tale» per sottolineare l’importanza della collaborazione fra le organizzazioni tunisine che lo compongono - il Sindacato generale del lavoro, la Confederazione di industria, commercio e artigianato, la Lega per i diritti umani e l’Ordine degli avvocati - da quando nel 2013 decisero di dare vita al «dialogo nazionale» per evitare che l’assassinio di due leader politici - Mohamed Al-Brahmi e Chokri Belaid - gettasse il Paese nel caos.
Esempio da seguire
È stata quella capacità di unirsi per scongiurare il peggio che il comitato del Nobel ha voluto indicare come modello da seguire.
«La Primavera araba si originò dalla Tunisia nel 2010-2011 diffondendosi velocemente in Nord Africa e Medio Oriente - ha affermato Kaci Kullmann Five, presidente del comitato del Nobel - ma in molte nazioni la battaglia per democrazia e diritti umani ha subìto sconfitte o è in stallo mentre in Tunisia la transizione democratica ha avuto successo grazie a una vibrante società civile».
In concreto ciò significa riconoscere nel Quartetto il valore della stretta cooperazione fra le diverse anime della società tunisina: una formula che resta un’eccezione nel mondo arabo a fronte delle sanguinose guerre civili in atto in Siria, Libia e Yemen come delle difficili transizioni in corso in Egitto e Iraq.
La decisione del Nobel assume inoltre un significato particolare in quanto nell’ultimo anno la Tunisia è stata bersagliata dagli attacchi terroristi di gruppi jihadisti - come lo Stato Islamico - intenzionati proprio a demolire i risultati della Rivoluzione dei Gelsomini facendo implodere il patto sociale frutto dell’opera del Quartetto.
«Tributo ai martiri»
Ecco perché il presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, in un video postato su Facebook parla di «premio al trionfo del negoziato sulla violenza che sottolinea come non c’è alternativa al dialogo» indicando una formula di importanza vitale «nel momento in cui stiamo affrontando una guerra contro il terrorismo che possiamo vincere solo restando uniti». Sono messaggi convergenti con le reazioni dei vincitori del Nobel.
«È un tributo ai martiri della democrazia in Tunisia, ai giovani grazie a cui abbiamo sconfitto la dittatura» afferma Houcine Abassi, capo del Sindacato generale del lavoro, mentre Abdessattar Ben Moussa, leader della Lega dei diritti umani, parla di «immensa gioia in coincidenza con una fase di tensioni politiche e minacce terroriste».
Domenico Quirico: "Premiato chi non si rassegna al terrorismo"
Domenico Quirico
Chissà cosa diranno i miei giovani tunisini, gli intrepidi che cacciarono «Zaba», il tiranno Ben Ali nel 2011, del Nobel della pace assegnato ai protagonisti della tessitura istituzionale che ha portato alla nuova costituzione del loro Paese, sindacalisti e imprenditori, avvocati e difensori dei diritti umani in una ecumenica fratellanza che è specialità dei designatori di Stoccolma?
Dico «miei» tunisini perché li ho visti allora nelle strade, compagni dei martiri che accesero Primavere che oggi sembrano luce che ci arriva da un astro già morto, innocenti e cattivi contemporaneamente: come sono tutti coloro che smuovono la Storia, spinti da un fuoco che li arroventa.
E gli «harraga»? I giovani tunisini che imbarcandosi su stanche barche, rotta verso Lampedusa, scoperchiarono l’altra pagina cruciale di questo tempo, ovvero la Migrazione? Saranno felici di questo Nobel, ne parleranno, trovando motivi di conforto, nei caffè infestati dalle mosche, lunghe ore a distillare un presente di triboli e di pene, il rasentarsi di solitudini come cinque anni fa quando furono respinti: come ora? Chissà se qualcuno di loro ha mai sentito parlare di questi distintissimi protagonisti della loro storia recente, tessitori di una politica che ha tortuosità e bizantinismi inossidabili. Ma forse è davvero questo il segno della democrazia di fronte a coloro che si sentono chiamati a fondare il regno di dio sulla terra, a sciogliere il nodo escatologico del destino umano. Nel 2013, quando una serie di assassini di oppositori senza macchia e la tempesta sociale sembravano sul punto di travolgere tutto e gli islamisti al potere modellavano una sharia versione light, molti di loro si allinearono furiosi dietro le bare dei nuovi martiri, gridando la rabbia contro i traditori. La scintilla questa volta non si accese, la Rivoluzione era stanca.
Forse avrebbero meritato il Nobel. Ma forse erano troppi anche per i prudenti designatori di Stoccolma. E poi la elementare avversione alla mala pianta delle élites convertite al politicantismo e alla «roba», e al Termidoro infido e rancido affidato ai furbi islamici «buoni» che sprecavano la libertà in una furiosa bulimia di potere e affari, è difficile da sintetizzare nella motivazione di un riconoscimento ufficiale.
Il premio per la pace ha un difetto: assegnato talora (e questo è un caso) a persone meritevoli, deposita su di loro uno strato spesso e duro di retorica che li rende asettici, già pronti per immediate dimenticanze. Non sono più modelli da impugnare furiosamente, diventano lapidi inutili. Con i mediatori tunisini è evidente lo scopo di alludere ad altro: premiare i moderati i democratici i dialoganti dell’orbe musulmano nel momento in cui il partito di chi non crede in dio se non trema, i radicali gli islamisti gli Assassini, prevale e, purtroppo, seduce e convince. Anche in Tunisia. Dove folle di ossessi bruciarono l’università americana e il terrorismo, autoctono, non di importazione, ha colpito con brutalità e efficacia. La Tunisia l’unica primavera araba riuscita: e già si premiano i reduci. Falso: perché la Rivoluzione non è finita, è fermento ed evoluzione qui e altrove. E il suo merito è di ricordarci di non accettare l’inaudito. Perché altrimenti l’ordine di quegli spiriti invasi, turbati, accecati, dai vapori del sangue ci circonderà con la stessa normalità di un bosco all’orizzonte e delle nubi sopra la testa. Ci circonderà da ogni parte. Non ci sarà nient’altro.
Premiare i tunisini del dialogo è una buona idea se non serve a nascondere che la mite Tunisia è tuttora in pericolo, che il consenso alla democrazia non è totale e che questo è avvenuto anche per colpa dell’Europa. Un Nobel in cambio di ciò che non abbiamo loro concesso: sarebbe una ipocrita compensazione.
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