IC7 - Il commento di Valentino Baldacci
Dal 27 settembre al 3 ottobre 2015
'La Collina' di Assaf Gavron
Assaf Gavron, La collina, Giuntina, Firenze, 2015
Sulla collina che dà il titolo al romanzo di Assaf Gavron, pubblicato qualche mese fa dalla Giuntina, si trova un insediamento ebraico considerato illegale dallo stesso governo israeliano. Si tratta allora di un romanzo a tesi, di un romanzo ideologico, dove chi condivide la politica degli insediamenti in Giudea e Samaria troverà conferma alle sue idee oppure, viceversa, chi avversa tale politica potrà trarre nuovi argomenti per la sua battaglia? Insomma, è un romanzo di destra o di sinistra?
Chi ne affrontasse la lettura con questi strumenti di interpretazione si troverebbe fuori strada, e di molto. Certo, che sia un’opera politica è indubbio, ma come lo sono praticamente tutti i romanzi israeliani, per il solo fatto di essere ambientati – nel presente o nel passato – in una terra dove è politico il fatto stesso che essa esista e dove ogni evento, anche il più privato, rimanda alla particolare condizione dello Stato d’Israele, alla impossibilità di essere – come voleva e sperava Ben Gurion – un paese “normale”, un paese “come tutti gli altri”. Un romanzo politico dunque, ma non un romanzo ideologico, non un romanzo a tesi.
Nel libro di Gavron non ci sono tesi ma persone. Persone che hanno fatto la scelta di vivere nell’insediamento, oppure che, per dovere d’ufficio, lo controllano o lo ostacolano, persone che vi vivono per un certo tempo e poi se ne vanno, oppure ci ritornano per poi andarsene di nuovo. Persone che gridano, che inveiscono, che riflettono, che si amano, che si detestano; insomma persone, uomini e donne, come se ne possono trovare dappertutto ma che, nella particolare condizione di vivere (o di cercare di vivere) in un insediamento illegale, finiscono per far ruotare gran parte della loro vita intorno al problema della difesa di questa loro particolare condizione.
Il romanzo segue la vita di queste persone nelle loro particolari vicende, nel loro incrociarsi e nel loro scontrarsi, ma soprattutto nelle loro emozioni, nei loro sentimenti contraddittori, nelle loro nevrosi, nell’essere tanto diversi gli uni dagli altri nonostante la condizione di vita che sembra in qualche modo portarli verso l’omogeneità. Non ha senso cercare di fare una sintesi di quest’opera, dove ogni capitolo ci presenta – nell’apparente uniformità – una situazione nuova, dove personaggi appaiono e scompaiono per poi ricomparire – magari dopo un soggiorno negli Stati Uniti – perché sulla collina sembra esserci un faro che li attrae irresistibilmente, il faro di un porto nel quale ci si può sempre rifugiare.
Però un aspetto non può non colpire il lettore non israeliano: il particolare rapporto che oppone ma anche lega gli abitanti dell’insediamento ai soldati che li debbono difendere ma anche controllare e, se viene loro ordinato, anche provvedere alla distruzione delle loro case, che sono in realtà dei semplici caravan fissati al terreno. Così come colpisce il rapporto di alcuni almeno degli abitanti dell’insediamento con le autorità politiche e militari, quel poter rivolgersi direttamente, con un cellulare, a un ministro o a un generale, senza troppe intermediazioni burocratiche, una forma di rapporto impensabile per noi italiani.
Corrado Augias
Infine, un’ultima osservazione. Ho letto una recensione di Corrado Augias sul “Venerdì” di “Repubblica” nella quale, fin nel titolo, si poneva la domanda “Ma dove sono i palestinesi?”. Augias avrebbe voluto, evidentemente, proprio quello che il romanzo di Gavron non è, un romanzo ideologico, un romanzo a tesi, con i coloni cattivi e i palestinesi buoni che si scontrano e si combattono, magari con l’intervento finale del più cattivo di tutti, il primo ministro israeliano. In realtà i palestinesi nel romanzo ci sono, ma non sono quelli dei servizi giornalistici occidentali, quelli che avrebbe voluto Augias. Sono contadini e pastori che vivono nel vicino villaggio arabo di Chemesh, da dove l’insediamento ebraico ha tratto anche il nome, sono anch’essi persone in carne e ossa, non burattini di un teatro ideologico, che con gli ebrei dell’insediamento hanno rapporti che non sono certo di amore ma nemmeno di odio, sono soprattutto rapporti di convenienza economica, che permettono perfino di progettare un’iniziativa commerciale comune, ma dietro ai quali si intravvede anche una lunga consuetudine, il manifestarsi della disponibilità a un rapporto non idillico ma nemmeno necessariamente violento, comunque lontano dagli stereotipi ai quali siamo abituati.
Valentino Baldacci, la copertina del suo recente libro (recensito da IC)