Riprendiamo dal FOGLIO di oggi,03/10/2015, a pag.IX, con il titolo "Dio mio, che risate" il testo dell’intervento svolto da Francesco M. Cataluccio sabato 26 settembre a Livorno, nell’ambito di “Il senso del ridicolo”, festival sull’umorismo, sulla comicità e sulla satira.
Raccolta di storielle ebraiche, di Angelo Pezzana
a destra: Francesco M.Cataluccio
Un bel proverbio ebraico dice: “L’uomo pensa, Dio ride”. Coloro che lo credono, immaginano la nostra esistenza come un grande teatro comico per un solo Spettatore che da lassù sorride dei nostri goffi tentativi di capire il mondo, di dargli un senso: dal suo punto di vista, in nostri pensieri e le nostre azioni, anche le più terribili, sono probabilmente uno spettacolo divertente. La cultura ebraica, oltre al rispetto, al timore e all’amore, ha sviluppato progressivamente una vena comica che, come nelle migliori tradizioni del cabaret, tenta di interloquire con quel solo membro del nostro pubblico collocato in alto. In un continuo confronto con Dio, anche dopo le più grandi sofferenze, l’umorismo ebraico cerca di mantener vivo questo singolare spettacolo, nel quale si impara e si tenta di affrontare la vita con una poetica filosofia della sopportazione, mai rassegnata. Una filosofia che non prende in considerazione la rinuncia né la resa, ma anzi si incaponisce a chiamare continuamente in causa Dio, per raccapezzarsi nel disordinato e oscuro teatro nel quale siamo stati, senza nostra scelta, chiamati a recitare. L’umorismo ebraico, come si vedrà, è una formidabile arma di difesa e di attacco. I primi esempi di umorismo ebraico si trovano già nella Bibbia e nel Talmud. Basti pensare, ad esempio, a quel buffo dialogo tra Dio, Abramo e sua moglie Sara, fatto tutto di risate, incredulità e impuntamenti. Quando Dio annuncia ad Abramo e a Sara la prossima nascita di un figlio, la Bibbia dice: “Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: ‘A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?’” (Genesi, 17,17). Dio dice: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”. Anche Sara ride dentro di sé e dice: “Avvizzita come sono, dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!”. Ma il Signore dice ad Abramo: “Perché Sara ha riso dicendo: ‘Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia?’ C’è forse qualche cosa di impossibile per il Signore? (…)”. Allora Sara, impaurita, nega: “Non ho riso!”. Ma Dio le dice: “Sì, hai proprio riso” (Genesi, 18, 12-15). E quando davvero nascerà il figlio, lo chiameranno Isacco: itzhak, in ebraico, significa “egli ride”. L’umorismo ebraico è forte e incerto allo stesso tempo: un umorismo della diaspora, di chi è dovuto scappare e ha perso le proprie radici materiali. Come ha notato giustamente Laura Salmon, intervenendo alla Giornata della cultura ebraica, nell’estate del 2012: “L’umorismo è per definizione diasporico, barcollante (…). Pur non essendo esclusivamente ebraico, questo umorismo è generato da situazioni di sospensione, malinconia, incertezza che sono tipicamente diasporiche. In tal senso, nessun gruppo culturale ha maturato un addestramento alla paradossalità, alla sospensione, più sofisticato e prolungato di quello della diaspora ebraica”. L’umorismo ebraico, come lo conosciamo e apprezziamo noi, ha le sue radici nel XVIII secolo, nei villaggi dell’Europa orientale tra la Polonia e l’Ucraina. Negli shtetl, dove le popolazioni ebraiche vivevano e, soprattutto, erano continuamente vittime dell’odio: nei loro confronti, nelle chiese, nelle taverne e nelle case, covava il pregiudizio, il risentimento e l’invidia economica. In quelle condizioni si sviluppò rapidamente il “hassidismo”: una corrente religiosa (malvista dai rabbini e dai membri delle comunità cittadine) più vicina alla gente umile, che predicava la ri- cerca del Bene attraverso un rapporto armonico col mondo e la costante unione con un Dio, che è ovunque, attraverso canti e balli. Da questo humus (dove si parlava lo yiddish, un dolce impasto di ebraico e tedesco, particolarmente adatto ai giochi di parole e ai doppi sensi), sorsero le basi di un umorismo diffuso, animato da figure come gli Schnorrer (scrocconi di mestiere), gli Schadchen (sensali di matrimonio), gli Schammes (scaccini) e tutta una variopinta galassia di poveri lattai, carrettieri, becchini, bottegai, osti ubriaconi, donnette di facili costumi. Le loro storie comiche trovarono orecchie sensibili e la possibilità di contaminarsi tra le classi ebraiche borghesi e colte delle città, arrivando a Vienna e Berlino per poi trapassare oltreoceano (con il grande esodo a causa della miseria e delle persecuzioni) dove trovarono, negli Stati Uniti, le condizioni ideali per svilupparsi e diventare popolari, soprattutto grazie al cinema (basterebbe fare i nomi di Chaplin, Lubitch, Wilder, Allen, i fratelli Coen…). Questo passaggio dal villaggio al mondo cittadino, dall’oriente all’occidente, cambia la cultura degli ebrei e anche il loro modo di ridere. Come ha spiegato lo psicoanalista Cesare Musatti: “Condizione della trasformazione è che gli ebrei non rimangano confinati in un clan del tutto chiuso, ma abbiano contatti con il resto del mondo. Allora l’ebreo diventa individuo solo. Colui che con le proprie caratteristiche, anche di sfortuna, di miseria e di stenti, e insieme dei personali elementi caratteriali da un lato, e la sua capacità dall’altro di sapersi destreggiare in queste situazioni difficili, riesce a convertire, attraverso gli artifici comici di cui lui stesso fa le spese, la propria infelicità in uno stato di dominio della situazione” (C. Musatti, “Mia sorella gemella la psicoanalisi”, Ed. Riuniti, Roma 1982). L’umorismo ebraico diviene così uno degli elementi distintivi della Modernità e uno dei cardini della cultura occidentale. Ma ora l’ironia non è più soltanto indirizzata verso “l’esterno” (com’è stata la Satira): essa inizia a rivolgersi anche verso “l’interno”, diventando autoironia. Ed è proprio questo che diviene uno dei segni distintivi dell’autentica intelligenza e una potente arma contro la continua tentazione che tutti abbiamo (per educazione e frustrata autodifesa) a sopravvalutarci. In questo viaggio all’interno di se stessi, l’umorismo diviene materia per la psicoanalisi (disciplina che nasce proprio nel Novecento ad opera di studiosi quasi tutti di origine ebraica). Non è un caso, che Sigmund Freud abbia dedicato una delle sue opere più importanti all’indagine sull’ironia come uno dei meccanismi comunicativi che caratterizzano il linguaggio dell’inconscio: “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” (1905). Per scriverlo, il padre della psicoanalisi raccolse una gran quantità, probabilmente divertendosi molto, di “storielle ebraiche”. Freud sostiene che proprio in esse è contenuta una tipica forma umoristica che mette in mostra quegli aspetti caratteristici degli ebrei, che in genere attirano la critica aggressiva degli altri. Questo spirito autocritico può esser identificato con l’umorismo che si ha proprio quando l’autore, elevandosi sopra le proprie miserie, debolezze, piccole grandi viltà quotidiane, rende oggetto di risata questa sua condizione infelice. Ed è questo anche l’aspetto drammatico del vero umorismo ebraico: gli ebrei, mettendo in piazza i propri “difetti”, riescono a convertire l’aggressività degli altri, certe volte, in simpatia, altre addirittura in solidarietà. C’è, secondo Freud, una grandezza d’animo, qualcosa di elevato e nobilitante, nel comportamento umoristico. La cultura ebraica scorge, nello spettacolo della vita terrena, tre elementi con quali si trova ad avere un continuo confronto: a) la Bibbia, il Libro fondativo e il faro di riferimento che accompagna come un canovaccio la recita di ogni essere umano; b) la Madre: generatrice, amorevole, ansiosa, egocentrica, possessiva, mai soddisfatta e soddisfacibile; quella, per citare una famosa barzelletta ebraica, che regala al figlio per il compleanno due cravatte e quando lo va a trovare, notando che ne indossa una, esclama: “Vedo che l’altra non ti è piaciuta!” c) il mondo ostile attorno. Sono questi tre elementi dai quali, a diverso titolo, occorre “difendersi”. E l’umorismo è appunto un’ arma potente di difesa. La Bibbia, come ha scritto Northrop Frye, è il “grande codice” della nostra cultura e le leggi che da essa derivano, nelle varie interpretazioni che sono state date, costituiscono un Modello, una Guida, ma anche una Gabbia. La normale reazione degli uomini a una grande costruzione culturale come la Bibbia è fare quello che i Filistei fecero a Sansone: ridurla all’impotenza. L’umorismo però è anche una sincera forma di rispetto che, contemporaneamente e paradossalmente, ne esalta l’importanza e la centralità. Del severo Dio che ride di noi percepiamo la grandezza infinita, ma non sappiamo bene chi sia. Mosè lo chiede a un roveto che brucia e si sente rispondere (Esodo 3, 14): “Io sarò quel che sarò” (o, meno esatto, come si traduce più comunemente: “Io sono ciò che sono”). Un po’ come dire: “Vai avanti nella tua recita, non ti preoccupare di chi sia Io, anche se ti sto passando il copione”. Ma allora se Dio ride, anche a noi è lecito, e conviene, farlo. La Bibbia è anche una fonte inesauribile di storie che possono essere rovesciate in un’interpretazione umoristica. Le “strategie di difesa” dalla madre, dalla morale religiosa e dagli antisemiti si basa sul rovesciamento e sulla forza scardinante della sessualità. L’umorismo ebraico è il prodotto di queste due energie: rovesciare il tragico e l’assurdo nel comico (facendo sempre emergere gli aspetti surreali della realtà); mettere continuamente in primo piano il sesso, anche là dove non ce lo aspetteremmo, come ossessione che governa tutte le nostre azioni e pensieri (basta pensare al protagonista di “Lamento di Portnoy” di Philip Roth o ai testi e ai film di Woody Allen). Il bello dell’umorismo ebraico è che spesso la comicità sprizza fuori da dove apparentemente non sembra ci sia nulla da ridere. Questo “rovesciamento” è del resto uno dei meccanismi principali della comicità. Luigi Pirandello, nel suo famoso saggio “L’umorismo” (1908), sosteneva che l’umorismo nasce da un capovolgimento della realtà, dalla capacità di ribaltare ogni cosa nel suo opposto. Non molti tra i lettori di Franz Kafka pensano, ad esempio, che egli sia uno scrittore umoristico. Eppure, come sostiene un suo amico praghese, anch’egli valente scrittore, Johannes Urzidil (nel prezioso libretto “Di qui passa Kafka”, 1966; trad. it. Adelphi 2002), l’ironia era la cifra di Kafka: “Quasi tutto in lui era ironia. (…). Aveva l’ironia dello sguardo rivolto su di sé con malinconica serietà”. Il suo era un “umorismo realistico” che, proprio nei contesti più seri, Kafka accentuava con fare irriverente e burlesco: “La satira di Kafka coglie l’insensatezza, ciò che è intricato e inattingibile, doloroso per natura, e che egli insegue con precisione sadica e spietata. Talvolta ciò che è doloroso viene mostrato in una maniera così esclusivamente bizzarra da non lasciare insorgere alcuna compassione”. E’ questo, ad esempio il caso del celebre racconto “La metamorfosi”, con il protagonista che si trova trasformato in un disgustoso insetto e si preoccupa dell’orario dei treni e dell’ufficio. Ma anche “Il castello” dovrebbe finalmente esser letto come una vicenda surreale, piena di umorismo. Per non parlare, infine, di quella perla di umorismo nero che è la con- ferenza di una “scimmia umanizzata” (“Relazione per un’accademia”). Qui l’umorismo ebraico (Kakfa era un appassionato frequentatore dei teatri e cabaret ebraici) si fonde in lui con lo spirito nascente del Surrealismo nero praghese. Kafka ci insegna a guardare oltre le appearenze e ridere delle nostre insensate tragedie. Alla fine di questo ragionamento, bisogna tornare alle barzellette ebraiche, che, per tutti, ma come abbiamo visto anche per Freud, sono l’epressione più chiara e divertente dell’umorismo ebraico. Esse sono infatti il “precipitato” di questo umorismo. Non sono delle storielle qualunque per far ridere: hanno sempre un sottofondo di saggezza o sono un graffiante gesto contro chi è ostile. Per concludere, ne racconterò tre che esemplificano bene quello che si è detto fino ad ora. La prima, molto nota, è un dialogo diretto con Dio. Il padre della psicoanalisi raccolse una gran quantità di storielle ebraiche. Probabilmente divertendosi molto Un piccolo uomo entra in Sinagoga, quando non c’è nessuno, si siede, guarda il soffitto e, con voce accorata, esclama: “Dio, mia moglie è malata e ha bisogno di costose medicine; il tetto della nostra casa sta crollando e bisogna chiamare i muratori per rifarlo; mio fratello non lavora e mangia alla mia tavola come quattro persone; mia figlia non ha un bel vestito e quindi nessuno la guarda e il mio piccolo insiste che vuole la bicicletta: fammi vincere alla lotteria!”. Dopo alcuni giorni, torna ancora più disperato, e dice: “Dio perché non mi ascolti? Non ce la faccio più a sopportare questa situazione: tutta la mia famiglia non fa che piangere e chiedere… Fammi vincere la lotteria!” Dopo una settimana, si rifà vivo, alza le mani al cielo e grida: “Ma allora, ti sei scordato di me?! Non hai compreso in che guai mi trovo? Ho pochissimi soldi, capisci? Fammi vincere questa benedetta lotteria?”. E allora, si squarcia il tetto della Sinagoga, fa capolino Dio e gli dice: “Benedetto uomo, dammi una mano: compra almeno un biglietto della lotteria!”.
La seconda contempla anch’essa l’intervento di Dio, ma è giocata sulla furbizia del narratore. In una taverna tre uomini stanno discutendo su quale sia la religione che produca più miracoli. Quando, dopo aver ascoltato le mirabolanti storie degli altri, tocca al lattaio ebreo, lui racconta: “Lo scorso Shabat, stavo tornando dal pranzo con mia madre. Non c’era nessuno per strada. All’incrocio qua dietro vedo per terra un portafoglio panciuto pieno di banconote. Mi guardo attorno, mi chino, allungo la mano e, quando sto per agguantarlo, mi sovviene che è Shabat, festa piena di divieti. Imbarazzato e confuso, ho chiesto a Dio che cosa dovessi fare. Voi non ci crederete, era sì Sabato, ma lì intorno si è fatto Mercoledì”. Infine, la terza deride la stupidità dei paranoici antisemiti: Due amici si incontrano, casualmente, dopo molto tempo. “E’ tanto che non ti vedo, quasi mi preoccupavo: che hai fatto in tutti questi mesi?”. “Ho letto e studiato molto, perché volevo capire chi sia la causa di tutti i mali del mondo”, risponde l’altro. “Programma ambizioso! E a che conclusioni sei giunto?”, chiede il primo. La risposta che ottiene è sorprendente: “Tutte le disgrazie sono causate dagli ebrei”. Al che l’altro, prendendolo in giro: “Ma va! Anche il Titanic allora sarebbe colpa degli ebrei?”. E il secondo, rimanendo serio: “E secondo te iceberg che cognome è…”.
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