IC7 - Il commento di Lia Levi
Dal 20 al 26 settembre 2015
La Polvere della Memoria
Lia Levi incontra gli studenti di una scuola
Le scuole sono appena cominciate e già immagino (o spero) che riprenderanno i miei incontri con gli studenti, incontri che ormai sento come una articolazione quasi fisica della mia vita. Oltre alle motivazioni di “contenuto” che ovviamente mi legano a questa esperienza ce n'è un'altra forse marginale e solo di sfondo a farmi da stimolo, una specie di gioco malato con me stessa. Quali saranno le domando politico-semitiche che mi verranno poste negli incontri con i ragazzi più grandi e con i professori “dedicati”?
Sì perché questo tipo di domande ha la caratteristica di nutrirsi dell’aria del contingente, insomma di camuffarsi, cambiare veste seguendo la griffe del momento per poi sfociare più tranquilla in quel punto unificatore che ha nome antisemitismo. E’ un’indagine privata che non ha certo pretese di statistica, niente più che una specie di racconto. In assenza momentanea di dialogo con le scuole, le osservazioni che ora vorrei dividere con voi nascono da una mia qualche esperienza in quei convegni, fiere e premiazioni letterarie che tentano di rivestire con l’abito della cultura le atone giornate estive.
Paolo Mieli
E’ proprio durante lo svolgersi di uno di questi eventi, di fronte ad un gruppo di professori affiancato da una democratica giuria popolare che si è acceso un sorprendente dibattito. Lo spunto era nato dalla lettura di un articolo del Corriere a firma di Paolo Mieli, apparso in quei giorni, in cui si trattava diffusamente del caso di un ebreo che, nella Trieste della occupazione nazista aveva denunciato centinaia di suoi correligionari. Articolo ineccepibile basato su un libro a sua volta frutto di una rigorosa ricerca storica. Ma forse montato in fase redazionale con eccessivo clamore (il titolo cubitale recitava “Ebrei nemici degli Ebrei”).
E’ stata questa enfatizzazione a fare approdare il caso nella platea in cui ero presente? Nessuno può dirlo. Il fatto è che una volta aperto il dibattito molti tra il pubblico si sono voltati istintivamente verso di me. E più di una tra quelle persone mi guardava con una specie di una costernazione accusatoria come se si fosse appena sparsa la notizia che mio figlio avesse partecipato ad una sanguinosa rapina. “Come può un ebreo comportarsi così con un altro ebreo?” ha balbettato una signora. Ma perché? Gli ebrei non sono esseri umani come gli altri? Non hanno la possibilità di essere buoni, malvagi, parzialmente buoni o parzialmente malvagi? Sono comunque precettati ad essere visti diversi anche nella loro essenza di uomini?
Sono concetti che naturalmente non ho espresso perché mi sembravano così elementari e primordiali da non consentire le parole. Certo, si sta estrinsecando una ben strana categoria mentale fra chi, magari, non ha pregiudizi ostili nei confronti degli ebrei, anzi ne ammira la cultura. Però, guarda caso, quello stesso ebreo che tanto stima non lo colloca nella generale categoria di essere umano ma su quella speciale e utopica che lo inchioda a palesarsi sempre come “necessariamente buono”.
Aaron Appelfeld
“Perché dai sopravvissuti – si chiedeva accorato Appelfeld rispondendo a domande che gli venivano continuamente poste - gli altri si aspettano qualche messaggio, una chiave per comprendere il mondo, un esempio di umanità? Loro non possono essere all’altezza dei grandi compiti che gli vengono attribuiti. Sono solo persone che hanno vissuto una storia di fuga e occultazione”.
Primo Levi
Quello che non ho spiegato alla signora e agli altri che le facevano da contrita spalla è che io provo la stessa sensazione dei soldati sovietici che Primo Levi descrive nel momento in cui sono appena entrati nel Lager e in loro si coglieva la vergogna che si prova di fronte alle colpe commesse da altri e “gli rimorde che siano state introdotte nel mondo delle cose che esistono”. Ecco io mi vergogno non perché questi crimini sono stati compiuti da ebrei ma perché sono accaduti. Posso finire con due versi di Emily Dickinson che ci dicono un’altra cosa? (o forse la stessa).
Quello che non ho spiegato alla signora e agli altri che le facevano da contrita spalla è che io provo la stessa sensazione dei soldati sovietici che Primo Levi descrive nel momento in cui sono appena entrati nel Lager e in loro si coglieva la vergogna che si prova di fronte alle colpe commesse da altri e “gli rimorde che siano state introdotte nel mondo delle cose che esistono”. Ecco io mi vergogno non perché questi crimini sono stati compiuti da ebrei ma perché sono accaduti. Posso finire con due versi di Emily Dickinson che ci dicono un’altra cosa? (o forse la stessa).
Emily Dickinson
“...quando spolveri il sacro ripostiglio
che chiamiamo memoria
scegli una scopa molto rispettosa
e fallo in gran silenzio
di quel regno la polvere è solenne...”
Lia Levi