I miracoli della modesta sineddoche
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: Gerusalemme e Tel Aviv, le due città più grandi e importanti di Israele. La prima è la capitale dello Stato ebraico
Cari amici,
sarà colpa di Socrate o di don Benedetto Croce ma nel nostro sistema culturale la retorica ha cattiva fama: roba da sofisti o da azzeccagarbugli. E invece, trattandosi della disciplina che studia il modo, onesto o disonesto, in cui si ottengono effetti di senso per mezzo della comunicazione e in particolare dei discorsi, aiuta molto a capire. Oggi per esempio vorrei attirare la vostra attenzione su una figura retorica che è molto pertinente al rapporto fra Europa ed ebraismo. Si tratta della sineddoche, che sostituisce la parte con il tutto e viceversa. Così qualche volta diciamo Washington per gli Stati Uniti, o al contrario la chiamiamo America, chiamiamo “scafi” le navi, o sostieniamo di “bere una bottiglia” di vino. Gli esempi sono numerosissimi, non insisto e non vi annoio con le sofisticate relazioni che questa figura retorica intrattiene con altre e soprattutto con metafora e metonimia.
Che cosa c'entra la sineddoche con i problemi politici che deve affrontare Israele? Moltissimo, e non solo per il fatto di essere oggetto spesso di una sineddoche sbagliata, quando si chiama il governo israeliano o tutto lo Stato “Tel Aviv”, non per indicare una parte qualunque del suo territorio per il tutto (nessuno dice “il governo di Haifa” o l' ”esercito di Beer Sheva”) ma per rifiutare la sineddoche naturale che fa sostituire uno stato con la sua capitale (Parigi per la Francia - e non Bordeaux; Vienna per l'Austria - e non Klagenfurt; eccetera). E' un punto su cui vale sempre la pena di insistere, perché si tratta di una forma di delegittimazione diffusissima e insidiosa, perché apparentemente innocente; ma non è il mio tema di oggi.
La questione si capisce bene facendo attenzione a due problemi internazionali, piccoli ma caratteristici dell'atteggiamento della “comunità internazionale” rispetto a Israele, che sono venuti fuori negli ultimi giorni. Il primo è in Islanda, non esattamente un paese importante nel bilancio della potenza mondiale, ma significativo perché, essendo così insignificante e isolato, spesso esprime nella forma più chiara le spinte ideologiche di una certa sinistra, come quando qualche anno fa dichiarò bancarotta per non pagare debiti regolarmente contratti con le banche inglesi, senza neanche la giustificazione della povertà sudamericana, e per questo fu presa per un po' a modello da grillini e antimondialisti, fino almeno a che non divennero chiari i prezzi che si pagano in questi casi.
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Bene, come forse sapete, qualche giorno fa il consiglio comunale di Reykjavík, capitale dell'Islanda, ha deciso il boicottaggio di qualunque merce proveniente da Israele (http://icelandmag.visir.is/article/reykjavik-city-will-boycott-israeli-products), naturalmente per “appoggiare l'indipendenza palestinese”. Ovviamente il danno economico di quest'azione non è rilevante, ma l'aspetto simbolico conta, anche perché si tratta di una violazione della legge internazionale di libero scambio, come qualcuno ha fatto rilevare subito (http://fortune.com/2015/09/17/reykjavik-boycott-israeli-products/); e in effetti varie organizzazioni ebraiche hanno minacciato di intervenire per via legale (http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/200760). A questo punto il sindaco di Reykjavík, Dagur B. Eggertsson ha cambiato le carte in tavola, ha detto che no, in realtà non volevano boicottare tutto Israele, ma solo i prodotti di Giudea e Samaria, come del resto minaccia di fare anche l'Europa; avrebbe fatto al più presto la correzione (http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4702039,00.html).
Vedete, però, se la nobile città di Reykjavík, forte dei suoi 119.289 abitanti (dati del 2012), vuole imporre a qualcuno di concedere “l'indipendenza” alla “Palestina”, era giusta la prima soluzione, non la seconda. Perché Giudea e Samaria, che Eggertsson chiama naturalmente “territori palestinesi occupati” o qualcosa del genere, non hanno alcuna personalità internazionale e non possono concedere nulla a nessuno; mentre il soggetto delle trattative con l'Autorità Palestinese è lo Stato di Israele nel suo complesso. Dunque, nel caso di Reykjavík come in quello dell'Unione Europea o del suo parlamento recentemente espressosi a grande maggioranza per l' ”etichettatura dei prodotti provenienti da Giudea e Samaria (http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/200566), il boicottaggio di questi territori è una sineddoche (“pars pro toto”) per il boicottaggio di Israele.
Vi è anche il caso contrario, il rifiuto attraverso la stessa sineddoche. E' il mio secondo esempio di oggi: Netanyahu ha di recente nominato ambasciatore in Brasile il leader storico del consiglio rappresentativo di Giudea e Samaria, Dani Dayan (http://www.jpost.com/Israel-News/Politics-And-Diplomacy/Settler-leader-Dani-Dayan-appointed-ambassador-to-Brazil-411283). E c'è stata una petizione anche qui come a Roma, ma in maniera più trasparente e in questo caso da parte di ambienti esterni alla comunità ebraica e dichiaratemente anti-israeliani, per rifiutare la nomina del nuovo ambasciatore in quanto “colono”, cioè abitante e uomo politico di Giudea e Samaria (http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4694221,00.html). Un “colono” non ha il diritto di rappresentare Israele, anche se lo stato lo sceglie. Perché di nuovo si cancella la regione per dare una lezione allo stato.
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Ma allora perché non colpire direttamente il vero obiettivo? Ci sono due o tre problemi da considerare. Il primo è il diritto internazionale. Israele come l'Islanda e l'Europa è parte dell'accordo WTO, che proibisce discriminazioni ai danni di uno stato membro. La seconda ragione è politica: Israele sarebbe oggi il solo stato non belligerante oggetto di queste sanzioni: una situazione piuttosto imbarazzante per chi la propone. E infatti quando se ne chiede ragione ai proponenti questi si affrettano a dire che se gli verrà in mente qualche altro stato che secondo loro viola i diritti umani, proporranno anche loro. Così accadde per il boicottaggio accademico promosso l'anno scorso dal piccolo sindacato degli “american Studies" nelle università Usa e così hanno detto anche i consiglieri comunali islandesi che hanno fatto passare il boicottaggio.
Ma poi c'è una terza ragione, che ha ancora a che fare con la sineddoche. Lo stato di Israele è evidentemente una sineddoche per il popolo ebraico. Il movimento va qui in due direzioni: coloro che, diciamo così, non hanno una gran simpatia per gli ebrei e non possono dirlo pari pari o neppure lo confessano a se stessi, dato che si tratta di un discorso che ancora in parte è interdetto dal ricordo della Shoà, se la prendono per via di sineddoche con quella parte del popolo ebraico che si è fatta Stato; quelli che sanno che lo Stato di Israele è perfettamente legale, una delle pochissime realtà politiche la cui esistenza è stata sancita da un voto della Società della Nazioni prima e dell'Onu poi, e che ha avuto grandissime realizzazioni economiche, culturali, politiche e anche militari, fanno finta di credere o se sono ingenui credono davvero che gli insediamenti in Giudea e Samaria siano illegali e che chi li abita (spesso impropriamente confusi con gli charedim che sono tutt'altra cosa siano fanatici religiosi, barbari assassini, “come l'Isis”. Per via inversa, l'abbiamo visto, si interdicono merci e persone di Giudea e Samaria per squalificare Israele, e si cerca di far del male a Israele perché si vuol colpire il popolo ebraico. Che miracoli non può fare la più umile e meno fantasiosa delle figure retoriche, la modesta sineddoche.
Ugo Volli