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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
18.09.2015 Esce in italiano il carteggio Stefan Zweig-Joseph Roth
Recensione di Marco Cicala

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 18 settembre 2015
Pagina: 106
Autore: Marco Cicala
Titolo: «Joseph Roth-Stefan Zweig, l'amicizia sull'orlo dell'abisso»

Riprendiamo dal VENERDI' di Repubblica di oggi, 18/09/2015, a pag. 106-107, con il titolo "Joseph Roth-Stefan Zweig, l'amicizia sull'orlo dell'abisso", la recensione di Marco Cicala a "L'amicizia è la vera patria", che riunisce il carteggio tra Stefan Zweig e Joseph Roth (Castelvecchi).

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Stefan Zweig (a sinistra) con Joseph Roth nel 1936 a Ostenda: è l'unica foto che li ritrae insieme

Stefan Zweig era intelligentissimo, ma della catastrofe aveva capito poco. Joseph Roth invece aveva capito quasi tutto. In particolare non gli era sfuggito come, rispetto al delirio militarista che aveva condotto alla Grande Guerra, il nazismo rappresentasse un radicale salto di qualità: «L'abbrutimento del mondo è peggiore che nel 1914. L'uomo non muove più un dito quando si ferisce e si assassina l'umano. Nel 1914 ci si sforzava ovunque di spiegare la bestialità con ragioni e moventi umani. Mentre adesso si conferiscono alla bestialità motivazioni bestiali».

Così scriveva a Zweig in una lettera del 29 marzo 1933 che purtroppo non è inclusa nel carteggio tra i due ora pubblicato da Castelvecchi col titolo L'amicizia è la vera patria. Si tratta di una versione abrégée - ma pur sempre meritoria, essendo materiale pressoché inedito in italiano - di un dialogo epistolare cominciato nel 1927. Quella tra Roth e Zweig fu più di una struggente amicizia nell'Europa che correva a rompicollo verso la rovina, fu il sodalizio - anche conflittuale - tra due temperamenti antitetici, due tipi di intellettuale, due generazioni di ebrei austroungarici. Nato tredici anni prima dell'amico, Zweig era viennese, ricco, cosmopolita, agnostico, pacifista; autore di enorme successo, aveva girato il mondo sfarfallando tra conferenze, cenacoli letterari, festival musicali, vacanze nelle stazioni invernali e balneari della Haute.


La copertina

A confronto, Roth pareva un folletto beatnik. Grande giornalista-scrittore, tra i pochissimi a non rendere quel binomio un ossimoro, veniva dalla periferia dell'impero, la Galizia chassidica, e per l'innovativa Frankfurter Zeitung aveva percorso l'Europa da reporter vagabondo, tra i meglio pagati dell'epoca, l'interludio weimariano. Dalla Germania dell'omicidio Rathenau e delle sommosse operaie alla Russia bolscevica, dall'Italia in orbace agli irrequieti Balcani...

A dispetto di un alcolismo sempre più invadente, quelle trasferte permisero a Roth di palpare con lucidità impressionante i sintomi del cataclisma continentale in allestimento. E l'uomo che scrive a Zweig il 22 maggio del 1933 dal riparo parigino è già un senza patria che assomiglia moltissimo agli sradicati eroi dei suoi romanzi. Acrimonioso e profetico, ha incenerito qualsiasi illusione: «Ogni speranza va abbandonata». «I prussiani» come continua a chiamare i detestati tedeschi, «sono i rappresentanti dell'inferno industrializzato nel mondo». Invece Zweig è ottenebrato dai nobili principi, dall'ottimismo umanista. Crede che la peste bruna possa essere debellata a colpi di vibranti appelli e manifesti. Come quelli di Roth anche i suoi libri sono banditi dal Reich, ma insiste: «Dobbiamo respirare di nuovo l'aria intensa del dialogo... Non bisogna indurirsi con la durezza dei tempi, bisogna essere positivi».

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Un rogo di libri nella Germania nazista: tra le opere bruciate, anche quelle di Stefan Zweig e Joseph Roth

Positivi un corno. Agli occhi di Roth, l'amico «non capisce che gli uomini sono diventati più cattivi, perché finora non ha voluto vedere la loro cattiveria», perso com'è negli «idealismi terreni, nei quali ha nuotato fin da ragazzo di cui si è sempre imbevuto». Roth ringhia contro il dogmatismo pacifista: «La nonviolenza del Mahatma Gandhi mi è antipatica quanto la violenza di Hitler mi è odiosa». Smaltita la giovanile infatuazione socialista, sputa veleno sul comunismo: «Un cazzo ha cambiato! Ha prodotto il fascismo e il nazionalsocialismo e l'odio contro la libertà dello spirito». La stessa, supposta, classe rivoluzionaria gli appare ormai come una massa rimbecillita dalla propaganda: «Una singola, piccola nostra idea ha più valore di tutta la merda del proletariato, che sta sempre attaccato alla radio».

Mandata al macero ogni fiducia nell'umanità generica, a che cosa s'aggrappa Roth? A Dio. E' diventato uno strano catto-ebreo a tendenza gnostico-apocalittica. «Non credo nell'umanità, in cui non ho mai creduto, ma credo in Dio e nel fatto che l'umanità, verso la quale Lui non esercita alcuna grazia, è solo una merda. Tuttavia, spero nella sua grazia». E ancora: «Non vedo nient'altro, al di là della fede cristiana (di certo nessuna letteratura), e non credo in questo mondo, né che si possa agire su di esso. Se Dio vuole, serve una scopa, e se Lui non vuole, non basta neanche un cannone».

Più l'Europa sprofonda e più Roth beve. Perdendo in lucidità prospettica. Legittimista nostalgico, vagheggia un ritorno della monarchia austro-ungarica: «Credo in un impero cattolico di impronta tedesca e romana». Come il messianico Settimo cavalleria nei film western, «gli Asburgo arriveranno. L'Austria sarà una monarchia. Il futuro mi darà ragione». Stefan Zweig - che mantiene economicamente l'amico - gli rinfaccia di essere offuscato dall'odio etilico: «Non inventi sofismi per cui l'acquavite sarebbe qualcosa di nobile e saggio che l'aiuterebbe a creare»; «La razione giornaliera di alcol deve essere diminuita»; «Lei ha un solo dovere, scrivere libri e bere il meno possibile»; «Pretendo da lei un risultato».

Delle 268 lettere raccolte in tedesco nel 2011 solo 45 sono quelle di Zweig le altre non sopravvissero alla disordinata vita di Roth («Odio le case»), andarono perdute tra alberghi e bistrot. Nell'unica foto rimasta che li ritrae insieme, i due siedono su poltroncine di vimini al tavolo di un soleggiato caffè all'aperto. Siamo a Ostenda, Belgio, nel luglio del 1936: l'ultima Estate dell'amicizia l'ha chiamata lo scrittore Volker Weidermann in un libro a metà tra romanzo e reportage storico da poco tradotto per Neri Pozza. In città la vendita dei superalcolici è vietata, ma forse il vino no. Roth sembra il più vecchio dei due. Fissa l'obiettivo con uno sguardo di strana intensità etilica. Quasi abbracciandolo, Zweig gli sorride con infinito affetto. Roth morirà tre anni dopo a Parigi fulminato da una crisi di delirium tremens. Zweig si suiciderà nel 42 in una villetta tra la vegetazione vicino Rio de Janeiro. Nel luglio del 37 Roth si era congedato dall'amico con le parole: «Sia stoico verso il mondo e doni quello che ha di più caro a tre, quattro uomini, non all'umanità». Mentre nell'ottobre del 38 gli scriveva: «Abbiamo il dovere assoluto di non mostrare alcun tipo di pessimismo». Perché è fatto così lo stoico: magari disperato, ma senza mai darlo a vedere.

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