Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 17/09/2015, a pag. 7, con il titolo "Netanyahu: sassi come bombe o droni. E multe ai genitori", il commento di Michele Giorgio.
Lo "scandalo" che Michele Giorgio "denuncia" oggi è il seguente: una legge israeliana che punisca il lancio di pietre da parte di terroristi e violenti palestinesi che periodicamente uccidono, come è accaduto tre giorni fa vicino a Gerusalemme. Che scandalo, per il quotidiano comunista, perseguire e punire un assassinio! E, non solo, "addirittura", riporta Giorgio, verranno comminate multe ai genitori dei violenti lanciatori di pietre. A Giorgio e ai suoi accoliti questa deve sembrare davvero la prova del militarismo del bieco governo di "Tel Aviv" (ricordiamo che Giorgio e soci non riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele).
Perché Michele Giorgio non va a fare un giro in macchina a sud o a nord di Gerusalemme? Chissà che una pietruzza non riesca a fargli cambiare idea...
Ecco l'articolo:
Michele Giorgio
Ecco gli eroi del Manifesto
«Una pietra uccide». E soprattutto «Smettetela di trattare con indulgenza i lanciatori di pietre». Questi titoli non sono di Israel HaYom, quotidiano-megafono di Benjamin Netanyahu. Erano ieri sulla prima pagina di Yediot Ahronoth, il giornale più diffuso di Israele che, peraltro, non ha simpatia per il primo ministro. Indicano il livello di consenso raggiunto nel Paese dalla campagna lanciata dal governo contro i palestinesi che scagliano pietre verso le auto degli israeliani che transitano nei Territori occupati nel 1967.
Altri "bravi ragazzi" palestinesi
La cronaca di questi ultimi mesi riferisce che alcuni di questi lanci sono stati letali e hanno provocato vittime. L'ultima, tre giorni fa, il 64enne Alexander Levlovitz, uscito di strada a sud di Gerusalemme dopo essere stato colpito - la polizia sta ancora indagando - da sassi scagliati contro la sua auto, pare, da abitanti del sobborgo arabo di Sur Baher. Ma ora la pietra, "l'arma" contro l'occupazione usata dai palestinesi sin dalla prima Intifada (1987), è addirittura messa sullo stesso piano di un mitra, delle bombe, dei missili, dei droni, degli aerei, dei carri armati, delle armi sofisticate di cui Israele dispone nei suoi arsenali. La pietra, nei discorsi dei leader politici israeliani, ha dato una sorta di parità strategica ai palestinesi, equivale a una cannonata, a una bomba sganciata sul centro abitato di Gaza.
Il premier Netanyahu è stato perentorio martedì sera durante la riunione d'emergenza del governo e ieri al termine della visita sul luogo in cui è stato colpito Levlovitz e sulla superstrada 443, che in parte entra all'interno della Cisgiordania occupata e dove si verificano lanci di sassi contro le auto israeliane. «Israele userà tutti i mezzi necessari per fermare i lanciatori di pietre (palestinesi)». «Alla vigilia del nuovo anno ebraico - ha aggiunto - osserviamo nuovamente come il lancio di pietre possa uccidere. Questo genere di atti incontreranno una risposta feroce, punitiva e deterrente da parte nostra. Adotteremo nuovi standard di deterrenza e prevenzione». Saranno puniti con multe pesanti i genitori che «permettono ai loro figli di partecipare a scontri violenti».
Sarà usato il pugno di ferro anche contro i coloni israeliani colpevoli degli stessi reati? Netanyahu pensa a una legge con un minimo di pena garantito. E forse a dare meno discrezionalità ai giudici, finiti spesso negli ultimi tempi nel mirino di alcuni ministri dell'ultradestra. Quello della Sicurezza interna, Gilad Erdan, ad esempio, si è detto a favore di misure volte a sbarrare il passo ai giudici troppo accomodanti. Un attacco frontale che la presidente della Corte Suprema, Miriam Naor, ha descritto come un pericolo per l'indipendenza dei giudici. D'altronde proprio la Corte Suprema è stata presa di mira per le sue sentenze ritenute poco nazionaliste. In ogni caso per sbattere in cella un palestinese già non sono necessarie prove certe di colpevolezza. Ne sanno qualcosa i circa 400 detenuti "amministrativi" in carcere in Israele senza processo. Tra questi c'è, di nuovo, l'avvocato Mohammed Allan, protagonista fino al mese scorso di un lungo sciopero della fame in prigione - è stato in coma e ha rischiato la morte - contro questi veri e propri arresti preventivi della durata di almeno 6 mesi. Allan ieri mattina è stato di nuovo ammanettato dopo essere stato dimesso dall'ospedale in cui si trovava per curarsi dalle conseguenze del digiuno cominciato a giugno. Si trova ora nel carcere di Ramleh e ci rimarrà fino al 4 novembre, ultimo giorno del suo periodo di detenzione senza processo.
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