Riprendiamo da PANORAMA di oggi, 10/09/2015, a pag. 82, con il titolo "Start-Up Israele", l'analisi di Barbara Carfagna.
"La scienza è diventata più importante della politica. Cercate di essere avanti, non al top". Shimon Peres, 92 anni, con la schiettezza che possono permettersi solo gli anziani che non rischiano di perdere il posto e che hanno già dimostrato tutto, pronuncia la frase più moderna che un politico possa pronunciare. Presidente dal 2007 al 2014, Peres parla all'inizio della prima World Science Conference di Israele.
15 premi Nobel; fondatori di start-up israeliane che stanno cambiando il nostro modo di vivere; 400 giovanissimi scienziati arrivati da tutto il mondo nella «Start-up nation», che d'ora in poi si incontreranno una volta l'anno a Gerusalemme. Il messaggio è chiaro: la scienza e la tecnologia avanti a tutto. Il nome di Israele deve diventare un brand per la ricerca scientifica, ora che perfino gli ultra ortodossi, fino a pochi mesi fa contrari a lavorare nel settore tecnologico, hanno il loro acceleratore, a Bnei Brak. Aziende globali nate in un contesto culturale sociale e religioso denso di peso e storia. A pochi passi dal Muro del pianto, dal Santo Sepolcro e dalla moschea Al-Aqsa.
In una nazione che è nata come una grande start-up con gente arrivata da tutto il mondo che doveva costruire tutto da capo in un ambiente geograficamente e politicamente ostile. Per noi europei, che facciamo una gran fatica a lasciare lo zaino del passato ogni volta che varchiamo le porte della Silicon Valley in California, quartier generale del mondo che verrà, è più facile affrontare il bagno di futuro qui, dove invece la storia viene trasformata in calce utile a pianificare le strutture del mondo tech. «La battaglia è evidente. Tra il sapere che si sviluppa a un ritmo forsennato producendo tecnologie e un medievalismo di ritorno che sta circondando alcune aree del mondo» spiega Benjamin Netanyahu, presidente di Israele ai premi Nobel intervenuti «è la modernità a portare la vittoria, ma a volte costa cara».
Israele, la "Start-Up Nation"
A chi chiede come si possa conciliare una simile passione collettiva per la scienza con la fede secolare, Aaron Ciechanover, Nobel per la chimica e membro della Pontificia accademia delle scienze, che tra poche settimane sarà in Vaticano da Papa Francesco, risponde: «Le due cose non sono affatto in contraddizione. Basta accettare il fatto che non si possono usare gli stessi termini e lo stesso metodo per indagare l'esistente, la realtà, e la fede».
In Israele qualsiasi sforzo nel passaggio all'era tecnologica di intemet si vede meglio che altrove. Perché tutto avviene a 40 gradi all'ombra. I quartieri tech non sono concentrati in una valle, come avviene in Silicon Valley, circondata da vigne sole e mare della California, ma distribuiti; perfino nel bel mezzo del deserto, dove chi ce la fa mette alla prova se stesso e le tecnologie del settore idrico e agroalimentare costruendo da zero università, quartieri e fattorie nel nulla di pietra. Come Yair Zarmi, fisico, che ha lottato una vita per fondare un quartiere attorno all'Institute of desert research dell'università Ben Gurion, nel deserto del Negev. Anche ora che è in pensione, Zarmi continua a insegnare come volontario e vive nel villaggio, dove vige il «solar right», il diritto solare: costruire senza togliere risorse energetiche e solari al vicino. Qui avanzano gli umani, sorgono vigne e il deserto si arrende. Basta essere tenaci e sperimentare in prima persona le nuove tecnologie.
Gadi e Leah Nahimov hanno chiuso due ristoranti di lusso a Tel Aviv per costruire la loro fattoria nella pietraia. Partiti sette anni fa con cinque figli, senza elettricità né acqua. Oggi, una sesta figlia in più, accettano ospiti disposti a pagare per trascorrere una settimana nella loro rilassante fattoria mangiando formaggi dal sapore inedito. A poche ore di distanza Noa Gershon, manager di Aqwise, ci mostra una tecnologia di depurazione dell'acqua venduta nei quattro continenti (anche a Coca-Cola, per dire) ma controllata via intemet da qui. Entriamo nella sala dei bottoni da cui, a partire dal prossimo ottobre, verrà monitorata anche la depurazione dell'acqua dell'Acea di Roma, e quella destinata a uso agricolo di Milano. La deformazione professionale porta a interrogarsi sulle conseguenze per i romani e i lombardi del possibile hackeraggio di queste reti.
L'autoconsolazione passa per una visita alle avanzatissime società di cybersecurity intorno a Ber Sheva. Il cuore della tecnologia militare e civile destinata alla sicurezza, che qui in Israele riesce ad attirare un decimo degli investimenti globali. Oggi chi possiede la tecnologia più avanzata è in grado di attaccare e difendersi anche dal Paese più potente del mondo. Un po' come Pirro quando vinse inaspettatamente contro i romani grazie all'introduzione della nuova arma: l'elefante. Qui però si studiano gli insetti, per sperimentare dispositivi e droni sempre più piccoli. Qui vengono creati software e dispositivi tra i migliori e più avanzati; venduti in tutto il mondo. «Oggi cambiare il messaggio di un telefonino in tempo reale mandando le persone a un appuntamento sbagliato, facendole litigare o innamorare può costare solo 29 dollari. Non strutturare una difesa cyber personale, aziendale e nazionale può costare una vita, un'azienda, un Paese» spiega il chief security officer di Coronet, introducendoci nel settore in cui gli israeliani sono all'avanguardia mondiale.
Si studia come mettere in sicurezza persone, smartphone, computer, ma anche infrastrutture elettriche, acquedotti, aeroporti. Qui si stanno concentrando capitali e sforzi massicci. Perché questa è la nuova geopolitca e la nuova guerra, che passa per il controllo dei dati finanziari, personali, e di intelligence del concorrente e del nemico. Israele, solo sette milioni di abitanti, produce il maggior numero di start-up quotate al Nasdaq dopo gli Stati Uniti. «Gli edifici della città di Ber Sheva, dove hanno sede anche le americane Cisco e Loockhed Maneen sono laboratori per il mondo intero», ci mostra Arieh Warshel, professore di remote sensing, per lo studio dei segnali che arrivano dallo spazio. Da queste parti, anche se non le vediamo, vengono studiate le armi autonome di ultima generazione, non ancora in commercio: droni o virus in grado di vagare per ore o per anni fino all'individuazione dell'obiettivo per cui erano stati programmati, e quindi colpire senza un preciso imput umano. La formazione militare è fondamentale per il successo dei giovani startupper.
Militare e civile, come in tutto il mondo cyber, si fondono. La gerarchia è stata resa dal cyber più orizzontale, incentivando l'autonomia del futuro soldato e del futuro imprenditore fin dalla nascita. «A partire dai due anni di età cresciamo i nostri figli mettendo nei campi da gioco oggetti inutilizzati invece che giocattoli già pronti. Si sforzeranno di trovare da soli il modo di utilizzarli, sviluppando la creatività». A parlare è Inbal Arieti, tre figli, ex militare nella Unit 8200, quella dei soldati tecnologici che inventano virus e cyberarmi sofisticatissime. «Da adolescenti i ragazzi trascorrono settimane in campi appositi dove da soli costruiscono pedane, altalene, giostre, mote. Li abituiamo a prendere rischi, cadere, rialzarsi; così cominciano ad apprezzare il valore del rischio e del fallimento, necessari a un imprenditore. Poi, durante il servizio militare, vengono formati all'utilizzo delle nuove tecnologie. Tutti. I più dotati, grazie alla base di conoscenze acquisite durante il militare, diventeranno start-upper e faranno esperienze all'estero. Come Noam Bardin, ex generale, fondatore di Waze: l'app che serve ad avere informazioni in tempo reale sul traffico delle strade in tutto il mondo».
Nella Hebrew University intanto i premi Nobel in chimica, fisica, biologia, siedono faccia a faccia con i leader delle start-up, in uno scattante confronto. Insieme cercano di definire differenze, affinità di metodo nella scienza e nella tecnologia; e confrontano i sistemi in un costruttivo ping pong senza esclusione di colpi. Dror Sharon, l'inventore di Scio, un dispositivo grande come una saponetta che, per un costo di soli 150 euro, avvicinato a un melone ci dice se è maturo e va raccolto, e anche quali sostanze e quante calorie contiene (appoggiato a una nostra coscia ci fa inorridire sul rapporto tra massa grassa e massa magra) si trova di fronte il Nobel Robert Aumann che, accarezzandosi la lunghissima barba sbotta: «Insomma con questi Big Data tutto quello che ho studiato finora (e come l'ho studiato) non conta più niente?». Ride il serissimo Steven Chu, a sua volta premio Nobel ed ex segretario americano all'Energia. Insieme ascoltano la spiegazione di un dispositivo biomedicale che consente, tramite una pratica cuffia di elettrodi, diagnosi e cura di mal di testa, depressione e altri disturbi originati nel cranio.
Il dibattito è su quanto le università debbano essere indirizzate alla ricerca applicata e quanto a quella pura. «Un'istituzione accademica non deve necessariamente essere utile nell'immediato». Daniel Zajfman è presidente del Weizmann Institute of Science, un centro al nord del Paese che ha generato con le sue ricerche valore per 30 miliardi di dollari. «Noi offriamo gratis le nostre conoscenze alle aziende. Solo quando, utilizzandole, ne traggono profitto chiediamo indietro una percentuale». Barak Dayan, fisico, ci intrattiene nel laboratorio dove si stanno studiando le basi del quantum computing, che potenzierà fino a dieci volte il computer e stravolgerà il mondo dei dati in modo imprevedibile. E uno dei tre laboratori di quantistica più avanzati al mondo. In questo mese sulla rivista Science. Prima di uscire, Zajfman ci avvicina: «Il giornalismo con questa mole immensa di infomazioni in circolo sta diventando astrologia. Emotivo e privo di verifiche. Nessuno nella fretta capisce né spiega più le cose in modo scientifico, con i dati alla mano. Ma la democrazia oggi non è più mettere tutti un bigliettino in una scatola per votare. È sapere che cosa stai facendo e perché. Se non abbiamo la conoscenza e la coscienza qualcun altro deciderà presto al posto nostro a nostra insaputa». E con questa politica invisibile il potere, globale e non più nazionale, sarà di chi gestisce e orienta scienza e tecnologia.
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