La STAMPA pubblica oggi, 03/09/2015, a pag. 23, con il titolo " Una solida amicizia contro l'odio ", un intervento del Presidente di Israele Reuven Rivlin, che in mattinata incontrerà il Papa in Vaticano e nel pomeriggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale.
Come abitante di Gerusalemme da sette generazioni, i miei ricordi di bambino della città sono i negozianti arabi che parlavano in Yiddish ai loro clienti ebrei che rispondevano in arabo. Ricordo una città dove cristiani, musulmani ed ebrei non solo vivevano fianco a fianco, ma insieme. A casa mia sentivo mio padre - uno studioso che ha tradotto il Corano in ebraico - parlare in ebraico e arabo con i suoi amici musulmani ed ebrei di qualunque argomento, dalla politica alla cultura. E oggi, ogni singolo giorno, a Gerusalemme e in tutta Israele, musulmani, ebrei, drusi, cristiani, bahai, fedeli, laici, vecchi e giovani condividono la loro esistenza quotidiana, prendono parte alla vita di Israele, con le loro rispettive comunità e come parte di una società più ampia. Alcuni sostengono che i conflitti che infuriano in Medio Oriente siano guerre di religione. Guardano gli schieramenti che si confrontano in queste regioni e sostengono che sia un conflitto tra ebrei e musulmani, o tra musulmani e cristiani. Comunque, per quanto facile - e forse comoda - possa sembrare questa generalizzazione, è ben lontana dall’avvicinarsi alla realtà. La verità è che più che trattarsi di un conflitto tra fedi diverse, tra diverse civiltà o religioni, il vero conflitto in corso in Medio Oriente è tra coloro che hanno issato il vessillo della morte e della distruzione e coloro che cercano di costruire ponti e un dialogo. È una guerra di chi vuole mettere a tacere ogni forma di confronto contro chi non si limita a cercare la discussione, ma crede, se nel rispetto reciproco, nella differenza di opinioni e nel disaccordo, purché liberamente espressi. Dobbiamo ricordarci che il male non è proprietà specifica di una singola religione; così come non è caratteristica di una singola nazione o di un gruppo etnico. È il male stesso che per sua natura distingue e discrimina una vita rispetto a un’altra, un essere umano rispetto a un altro, mentre l’unica reale differenza è tra bene e male; tra la nostra umanità e le tenebre. Fare fronte a tanto male, al fondamentalismo e all’odio profondo, non può rimanere solo uno slogan. Fino a quando il fuoco della morale non brucerà dentro ognuno di noi, le lezioni del passato andranno perse. Continueranno i massacri di intere comunità e nazioni. Bambini, donne, uomini e anziani continueranno a sopportare persecuzioni e oppressione di fronte a un mondo cinico e apatico. L’Europa è testimone diretta dell’orribile destino di tanti che fuggono nel disperato tentativo di raggiungere una vita migliore. Un’altra realtà spaventosa per l’Europa è la radicalizzazione di tanti suoi giovani, dopo il lavaggio del cervello che li porta non solo ad abbracciare il culto della morte dello Stato Islamico, ma anche, purtroppo, a unirsi ai terroristi che combattono in Siria, Iraq e altrove, e perfino a commettere attentati sullo stesso territorio europeo. Sebbene ogni comunità abbia avuto i suoi caduti e i suoi feriti in questi terribili attacchi, i bersagli sono stati spesso gli ebrei, i loro luoghi di culto o di affari - segno che gli attacchi antisemiti restano il marchio dell’estremismo radicale. L’Italia ha dimostrato sia a livello educativo che legislativo che non tollererà più l’odio, e si oppone con decisione all’antisemitismo. Il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, durante il suo discorso inaugurale in occasione di una sessione a camere riunite del Parlamento italiano, ricordando Stefano Gaj Taché - il bambino di due anni vittima nel 1982 di un attentato davanti alla grande sinagoga di Roma - ha usato parole semplici: «Era il figlio di ognuno di noi». È nostro dovere lavorare insieme contro il fondamentalismo. È dovere di tutti coloro che sostengono la libertà lavorare per un mondo più giusto per le future generazioni, per «tutti i nostri figli».
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