Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/08/2015, a pag. 40, con il titolo "Taxi driver in Iran", la recensione di Paolo D'Agostini.
Jafar Panahi
Torna in mente una questione abbastanza imbarazzante. Possibile che la censura imposta agli artisti dai regimi dittatoriali, come è ancora oggi quello di Teheran, risulti in una certa maniera – anche se è difficile ammetterlo, anzi quasi indicibile – stimolante, produttiva, feconda, addirittura portatrice di ispirazione? Viene sempre alla mente, per esempio, il caso di un cineasta importante come lo spagnolo Carlos Saura il quale ha lasciato probabilmente un segno più incisivo con la sua prima produzione anni 60-70, cioè con Francisco Franco ancora abbastanza saldamente al potere, che non con quella successiva anche se copiosa e di notorietà molto più vasta.
La figlia di Jafar Panahi ritira per il padre (rinchiuso in Iran) l'Orso d'oro 2015 a Berlino
Ma di casi potremmo farcene venire in mente tanti altri, in particolare riguardanti la parte di Europa già costretta sotto il tallone sovietico, e ancora più in particolare la Polonia che nel suo cinema nazionale, dopo la riconquistata libertà democratica, non ha più conosciuto la vivacità di prima. E questo porta a considerare la contraddizione tra repressione e, più o meno tollerati o subiti ( da parte degli apparati statali repressivi), fama, prestigio, riconoscimenti internazionali all’opera e alla personalità di artisti perseguitati in patria. In un’altalena che di volta in volta fa di loro una vergogna nazionale e un fiore all’occhiello, perché comunque portano riscontri significativi per la bandiera che rappresentano.
La locandina del film
Il caso dell’iraniano Jafar Panahi (55 anni) ha dell’assurdo. A partire dal suo primo film Il palloncino bianco non ha fatto che collezionare un costante alternarsi tra premi prestigiosi e pesantissimi condizionamenti censori. Il palloncino bianco vince la Caméra d’or di Cannes riservata al miglior debutto e subito dopo con Lo specchio vince il Pardo d’oro di Locarno e, con Il cerchio , il Leone d’oro di Venezia. Il quarto film Oro rosso , premio della giuria nella sezione Un certain regard di Cannes, viene prima designato a rappresentare l’Iran per l’Oscar al miglior film “straniero” e subito dopo ritirato e vietato. Per Offside , bellissima metafora riguardante l’umiliante condizione di emarginazione femminile, Orso d’argento a Berlino e divieto di circolazione in patria.
Una scena del film Taxi Teheran
Alla fine del decennio Duemila il gioco si fa ancora più duro. Una catena di arresti, processi- farsa, condanne, proibizioni non impedisce a Panahi di realizzare clandestinamente ( e fortunosamente far uscire dai confini) altri film, fino a questo Taxi Teheran , Orso d’oro a Berlino 2015. Mentre intanto la sua poltrona di giurato a Cannes (2010) resta vuota sotto i riflettori come un segnale di solidarietà e un monito per tutta la durata del festival, poi il Premio Sakharov del Parlamento Europeo viene ritirato da sua figlia, e ora Taxi Teheran – realizzato del tutto “illegalmente” – riceve un altro Orso d’oro dalle mani del presidente di giuria Darren Aronofsky. Talento sicuramente, e poi resistenza da vendere.
Lo stesso Panahi, che nel film è proprio lui con la sua riconoscibile e riconosciuta identità, guida un’auto pubblica in giro per le congestionate strade e superstrade della capitale iraniana, facendo una quantità di incontri con gente comune (che lo riconosce e lo ammira) e gli racconta i fatti suoi, lo coinvolge, gli chiede consigli e pareri. Una girandola di piccola vera umanità che, con il sorriso anche quando la fatica di vivere è evidente, dà la misura piena di un paese e di un popolo stracarico non solo di storia e cultura ma anche di potenzialità che non aspettano altro che di potersi esprimere pienamente.
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