Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/08/2015, a pag. 19, con il titolo "Gli occhi un coltello e l'odio", l'analisi di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
Jihadi John appare per la prima volta senza maschera in un video
Jihadi John è riassunto in due cose. Gli occhi, o meglio lo sguardo che per la fissità incapace di distrarsi, per l’applicazione, come se si trattasse di un problema, pare aver coscienza che si tratta di andar molto oltre quello che si vede. Dico lo sguardo perché senza il turbante che gli avvolgeva finora il volto la faccia appare immatura e appena abbozzata, con le ciglia così chiare che gli occhi scialbi paiono nudi. Ma lo sguardo no: è lo stesso, una occhiata vischiosa, attaccaticcia come la sbavatura di una lumaca.
E poi il coltello. Il coltello con cui uccide. Le sue parole in fondo non contano molto, risuonano come echi di caverna in questo vuoto di minacce e propaganda. Che siano le declamazioni con cui, vestito da boia del califfato, annunciava la esecuzione degli ostaggi; o come nel video, questa volta a volto scoperto, con cui ci spiega che è vivo, continua a uccidere infedeli e tornerà nella sua terra di origine, la Gran Bretagna, per portarvi il sanguinario jihad. Lo davano le voci sempre incerte e deformate dallo specchio di quel caos che il Vicino Oriente, ucciso, o pentito e disertore, o giustiziato dai suoi stessi compagni.
Jihadi John, ritratto di un carnefice
Abbiamo di quell’universo davvero appena visioni informi, frammentarie, che completiamo con arbitrarie associazioni di idee, creatrici di pericolose suggestioni. Mohamed Emwazi il londinese è, o sarebbe, dunque ancora vivo. E non ha paura a mostrarsi, a proporci un’altra angolazione del suo sguardo. Ma la scoperta ci appare irrilevante, senza conseguenze, come le annunciate eliminazioni seriali dei capi del califfato che dovrebbe ormai esser deserto di capi, sottocapi, cervelli, burattinai e strateghi e invece continua furiosamente a esistere e a uccidere. Ci appare irrilevante perché l’angoscia che i jihadisti di questa nuova specie antropologica ci instillano nasce appunto dalla pura negazione, dal sapere che esistono per dover distruggere e dall’ignorare di poter ricostruire; dal fatto che siano tutto commiato e nulla speranza, insomma dal fatto che annuncino di cercare dio senza aver alcun appuntamento con lui, ne qui né lassù.
Nella vita normale per entrare in noi una persona è obbligata a prendere una forma, a piegarsi al quadro del tempo. Apparendoci solo per minuti successivi non ha mai potuto darci di sé che un aspetto solo alla volta, non ha potuto offrirci che una solo fotografia. Gran debolezza per una persona quella di consistere in una collezione di momenti. Ma anche gran forza se ha a che fare con la memoria. Quello sbriciolamento al momento in cui la persona non c’è più, non fa solo vivere la morte ma la moltiplica. Quando si è arrivati a sopportare il dolore per averla perduta bisogna ricominciare con un’altra, con cento altre. Ma non Jihadi John e gli altri Assassini: è entrato in noi solo con l’atto di uccidere, in piedi, il coltello in mano la vittima muta accanto, come un fotogramma ripetuto per setto otto dieci volte, identico, e null’altro. E nella atroce uniformità del ricordo ridotto a unità che la nostra angoscia trova la sua moltiplicazione.
In realtà non sappiamo nulla di lui, di Jihadi John scelto come prototipo del combattente straniero e di questa generazione di giovani musulmani senza passato, desertici, ma contagiati dalla seduzione islamista. Siamo sinceri: sono loro il nostro unico oggetto di attenzione, che ci importa dei siriani degli iracheni dei libici e dei nigeriani? Assistiamo alla loro crocefissione da parte degli Assassini del totalitarismo islamico da anni, senza quasi batter ciglio. Non sappiamo nulla, (ma ne parliamo e scriviamo e prendiamo decisioni politiche) perché non abbiamo indagato, interrogandoli (ma come fare se questo può significare la morte?) sul loro primo delitto.
Può essere che fino a quel momento nella sua vita londinese Jihad John fosse un sornione o un timido, che avesse paura a colpire un altro essere umano, o fosse immerso in fradice malinconie. Ma quando per la prima volta, a Raqqa o a Mossul, si è vista la vittima strisciare per terra e mendicare la vita, ha avuto la sensazione di diventare un altro, più forte e più potente, ha sentito il proprio sangue e ha visto allargarsi l’orizzonte. Il mediocre giovanotto londinese era diventato a una tratto padrone e arbitro di vita e di morte, si è trovato tra le mani il potere, l’onnipotenza omicida, una cattiveria ebete e viperina. E un’acuta ebbrezza lo invadeva finché poi la prima percossa è scesa sul capo cedevole della vittima, l’impugnatura del coltello si è appoggiata sul collo, ha tastato la carotide e…
Sentiva che le sue mani si facevano forti, si poteva mettere all’opera: sradicare la vita. Già: uccidere. E costruire? Il califfato, lo stato perfetto, la purezza. Odiare. Potrebbe fare dell’altro? L’odio è sufficiente, dunque. Non è vero che per vivere ci vuole qualcosa di più dell’odio. Giustizia pietà fraternità… parole, parole che dicevano ben poco ora che attorno a lui c’era la Siria e il deserto e la guerra. Perché ricorrere alle parole? Bastava perseverare affinché gli altri morissero prima di lui. La possibilità di sfogare il proprio odio che prima si sentiva marcire nel cuore. Alla fine non era nemmeno più necessario che le odiasse, le sue vittime, no: erano solo dei rottami marci che non permettevano di crescere. La guerra santa era questo. Ecco tutto.
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