Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/08/2015, a pag. 1-13, con il titolo "Gli inafferrabili jihadisti di ritorno", l'analisi di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, con il titolo "Le cellule della Jihad: una mappa europea", l'analisi di Guido Olimpio.
Ecco gli articoli:
I jihadisti tornano in Europa: "Qualcosa da dichiarare?"
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Gli inafferrabili jihadisti di ritorno"
Maurizio Molinari
Il terrorista mancato sul treno francese ad Arras, gli autori delle stragi del Bardo e di Sousse come i killer di «Charlie Hebdo» a Parigi e jihadisti «Most Wanted» dalle polizie di mezza Europa: sono i «muhajireen» ovvero gli «emigranti» che lasciano il Paese di nascita, si arruolano volontari nei gruppi jihadisti, apprendono tattiche militari e tornano indietro al fine di uccidere «musulmani apostati» o qualsiasi tipo di «infedele» nei paesi occidentali.
Il termine «muhajireen» evoca il precedente di Maometto che fu protagonista della «hijira» scappando da La Mecca a Medina con una “migrazione” che gli consentì di sfuggire a chi voleva ucciderlo ponendo le basi per la nascita dell’Islam. Abdullah Azzam, l’ideologo della Jihad che ha ispirato Osama bin Laden, ridefinì la «hijira» come la scelta del musulmano che fugge dalla “terra della paura” per recarsi nella “terra della sicurezza”.
Foreign fighters
Si tratta di una formula di rinascita, personale e religiosa, che ha ispirato i «mujheddin» volontari nei ranghi di Al Qaeda negli Anni Ottanta, consentito ad Abu Musab al Zarqawi di reclutare nel mondo arabo contro l’intervento militare americano in Iraq ed è ora alla base del successo dello Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi che conta su almeno 17 mila «foreign fighters», fra cui circa 5 mila europei secondo le stime più prudenti dell’anti-terrorismo Usa.
Proprio per esaltare il passaggio dalla «paura» alla «sicurezza» Isis diffonde sul web manuali che assomigliano a guide turistiche per descrivere i pregi della vita nei territori del Califfato, la cui estensione eguaglia quella del Regno Unito.
La provenienza
Il numero più alto di «muhajireen» viene da Tunisia e Arabia Saudita, in Europa i contingenti più folti sono tedesco, britannico e francese, mentre in Asia spiccano caucasici, indonesiani ed australiani le cui destinazioni sono soprattutto nei campi del Califfato in Siria, Iraq e Somalia, ma anche in quelli di Al Qaeda in Yemen, Pakistan e Sahel. E’ un fenomeno che investe anche gli Stati Uniti - sono almeno 40 gli americani jihadisti nei ranghi di Isis - ma ciò che colpisce è come l’identikit dei «muhajireen» occidentali abbia in comune l’assenza di origini in famiglie segnate dal fondamentalismo islamico.
L’identikit
Un recente studio del «Soufan Group» sui «foreign fighters» li definisce in un arco di età fra i 18 e 29 anni, di entrambi i sessi, con una forte componente di convertiti, senza particolari legami o studi islamici alle spalle, ma accomunati da una volontà di “rinascere” per raggiungere obiettivi di affermazione personale come «l’appartenenza ad un gruppo, l’acquisizione di una nuova identità, l’avventura, il danaro, una famiglia» ovvero la propria definizione di “successo”. Ciò spiega la difficoltà dell’anti-terrorismo, in Europa come negli Stati Uniti, nell’identificazione dei «foreign fighters».
La caccia ai terroristi
«Quattro decenni di ricerca su coloro che scelgono di diventare terroristi non sono riusciti a produrre un profilo specifico» spiega John Horgan, direttore del Centro di studi su terrorismo e sicurezza dell’Università del Massachusetts, per sottolineare la difficoltà nella prevenzione e dunque anche nella caccia ai «terroristi di ritorno», simili ai killer addestrati in Yemen che colpirono a Parigi lo scorso dicembre oppure al tunisino proveniente dai campi libici che ha portato la morte sulla spiaggia di Sousse.
Le vie di passaggio
A complicare la prevenzione è anche l’esistenza delle «autostrade della Jihad», ovvero i percorsi, via aerea o terrestre, che consentono ai jihadisti di andare e venire dai campi di addestramento: se il territorio della Turchia ospita quella più frequentata, Egitto, Pakistan e Tunisia costituiscono delle vie alternative per portare a compimento la propria «hijira».
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: "Le cellule della Jihad: una mappa europea"
Guido Olimpio
Ayoub El Khazzani è uno dei tanti. Il profilo dello sparatore del treno Amsterdam-Parigi è la copia carbone di dozzine di rapporti di polizia. Origine marocchina, segnalato come persona da tenere d’occhio, residenza in Spagna, contatti in Belgio, poi l’azione in Francia. Si è mosso da solo ma forse all’interno di una realtà più estesa: saranno le indagini a definirne i confini, a stabilire i vecchi legami con la cellula belga di Verviers diretta dall’Isis o con elementi in Siria, dove è stato per un anno, forse a addestrarsi.
Non sono pochi i nomadi della jihad. Spesso singoli individui che si sono uniti prima a un gruppo di amici/parenti, poi a un movimento. In migliaia sono andati fino in Iraq, a Mosul, nel feudo siriano di Raqqa dove comanda lo Stato Islamico. Molti sono tornati, portandosi dietro un vincolo con personaggi che, se vi sarà la possibilità, li useranno dietro le linee, nelle città occidentali. Un rapporto diffuso da Parigi sostiene che siano oltre 200 i francesi rientrati, porzione di 3 mila «soggetti pericolosi». Situazioni che si moltiplicano se estese all’intero continente europeo. Sulla mappa si allargano macchie nere, zone che più di altre hanno offerto «martiri per la causa».
Migranti della guerra santa finiti agli ordini del Califfo, dei qaedisti al Nusra e di altre organizzazioni minori. Non tutti stanno con il Califfato, anche se c’è la tendenza a catalogarli come tali. Il legame tende ad allentarsi man mano che l’elemento si avvicina alle porte di casa. La minaccia non è unica. C’è il terrorista fai-da-te, spesso una persona che si attiva con una «carica» composta da ragioni personali e politiche. Le dosi variano a seconda dei casi. In alcuni conta più la rabbia personale che la spinta estremista. È colui che «osa portare lo stendardo», diceva Mohammed Merah, lo stragista di Tolosa. C’è poi la cellula — vicenda belga, strage di Charlie Hebdo — con vincoli internazionali abbastanza evidenti. Infine l’evoluzione temuta, il commando che si prepara a Oriente e torna in Occidente per eseguire la missione. Non sono classificazioni rigide, siamo in una realtà ibrida, con ruoli e collegamenti sfumati. Gli estremisti possono spuntare da quartieri tranquilli come dai focolai di disagio sociale.
L’antiterrorismo di Parigi ha individuato una mezza dozzina di regioni a rischio, luoghi dove sono stati reclutati gran parte dei mujaheddin. Interessante, ad esempio, la Costa Azzurra. Poche settimane fa è morto combattendo in Siria Omar Omsen, maliano emigrato da bambino a Nizza e diventato un grande reclutatore. Un pifferaio magico capace di attirare 100 seguaci. In Spagna è invece la costa meridionale, con la Catalogna, il faro: un report sostiene che vi sono 98 moschee tutte su posizioni radicali.
Non meno importante il ruolo dell’enclave di Ceuta, sulla sponda africana. Il piccolo Belgio è quello che in proporzione ha prodotto il maggior numero di militanti. Ne sono partiti quasi 500, 60-70 hanno perso la vita e non meno di 100 girano liberi all’interno del Paese. Tra questi quanti sono pronti ad aprire un secondo fronte? Se ci spostiamo in Norvegia ecco il quartiere di Lisleby a Frederikstad: da solo ha prodotto 8 elementi affascinati dalle «gesta» dell’ex calciatore Abdullah Chaib, caduto con il fucile in mano nel dicembre 2012. Numeri ancora più ampi quelli di Angered, sobborgo di Goteborg, in Svezia. Da qui sono partiti una cinquantina, comprese 11 donne. E a seguire la Danimarca, l’Albania, la Macedonia, la Bosnia. La via balcanica va monitorata anche per i suoi legami con l’Italia, rapporto emerso in molte indagini. Il dato che accomuna gli aspiranti guerriglieri europei e nordafricani è la voglia di andare dove si lotta sul serio e le filiere sono pronte a soddisfare la richiesta.
Sono network però che possono essere identificati e scoperti. Più complicato intercettare chi opera al di fuori di questi canali o quanti mantengono rapporti fluidi. I potenziali terroristi restano in un limbo trasformandosi in bombe a tempo. Nessuno sa quando e se esploderanno. Anche il modus operandi li aiuta. Costruire una cintura da kamikaze non è alla portata di chiunque. Più semplice l’arma di opportunità. Un pugnale, un’accetta, un coltellaccio. Roba che trovano ovunque.
Altrimenti, per chi sa come fare, c’è la pistola e il kalashnikov. Il mercato nero, ben conosciuto da uomini che hanno alle spalle esperienze criminali, offre ciò che serve. Il killer del museo ebraico di Bruxelles, gli assassini dei vignettisti, lo sparatore di Copenaghen e ora El Khazzani hanno colpito passando sotto il radar. Erano noti, c’era un dossier aperto, ma non è bastato. Tornano le polemiche sul perché non lo abbiano fermato. Buone per la politica e non per l’antiterrorismo. Che dovrà però studiare delle contromosse per difendere una società impaurita da un nemico capace di incidere in ogni aspetto della vita.
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