Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 22/08/2015, a pag.54-55, l'intervista a Michel Houellebecq e Alain Finkielkraut di Jean-René Van Der Plaetsen.
Alain Finkielkraut
Michel Houellebecq
Quella settimana avevo preso accordi con Michel Houellebecq per incontrarci a cena a casa sua. Aveva invitato anche Alain Finkielkraut e sua moglie, l'avvocata Sylvia Topaloff. Come è noto, Houellebecq è quanto mai parsimonioso nel concedere ai propri simili le due lodi; ma ha sinceramente apprezzato lo spirito rigoroso e brillante di Finkielkraut, autore di libri quali La sconfitta del pensieroo L'identità infelice che hanno lasciato il segno in questi ultimi vent'anni. Finkielkraut-Houellebeoq: che binomio. Da una parte l'accademico che dopo tante battaglie combattute con giovanile energia ha conquistato un'immagine di conservatore dichiarato, sensibile ai problemi della memoria e dell'identità; dall'altro il poeta tanto svitato quanto intransigente, divenuto autore di bestseller planetari senza concessioni di sorta. Anche se a momenti la discussione si è fatta accesa, vi sono più cose che uniscono queste due menti alla ricerca della veritè di quelle che le dividono. Perché oltre al rifiuto di sottostare alle direttive dell'ideologia dominante e di compiacersi nell'ammirazione della modernità, Houellebecq e Finkielkraut hanno in comune diversi lati del carattere, tra cui un innegabile coraggio, regolarmente manifestato nelle polemiche che suscitano, volontariamente o meno. Finkielkraut-Houellebecq: che binomio. Da una parte l'acca demico che dopo tante battaglie combattute con giovanile energia ha conquistato un'immagine di conservatore dichiarato, sensibile ai problemi della memoria e dell'identità; dall'altro il poeta tanto svitato quanto intransigente, divenuto autore di bestseller planetari senza concessioni di sorta. Anche se a momenti la discussione si è fatta accesa, vi sono più cose che uniscono queste due menti alla ricerca della verità di quelle che le dividono. Perché oltre al rifiuto di sottostare alle direttive dell'ideologia dominante e di compiacersi nell'ammirazione della modernità, Houellebecq e Finkiekraut hanno in comune diversi lati del carattere, tra cui un innegabile coraggio, regolarmente manifestato nelle polemiche che suscitano, volontariamente o meno. Ecco una sintesi della loro discussione sull'identità francese, una nozione che da anni li tormenta entrambi, anche se per ragioni diverse.
Oggi si riflette molto sull'identità francese. Ma non credete che quest'identità, plasmata dalla civiltà giudeo-cristiana, sia minacciata anche da noi stessi, dall'interno in qualche modo, oltre che da fattori esogeni?
Michel Houellebecq: Sono assolutamente d'accordo. Il disagio occidentale è innanzitutto endogeno. Da questo punto di vista sono rimasto positivista a tutti gli effetti. Alla fine del Medioevo si entra in una nuova era critica, quella che Comte chiamò l'era metafisica incapace di creare alcunché, ebbe l'unica funzione di distruggere l'era organica antecedente, basata sul feudalesimo e sulla cristianità. In questo momento stiamo vivendo il crollo dell'era metafisica, cui subentrerà una nuova era organica, necessariamente basata su una religione. Ma quale? Da buon discepolo di Comte, ho esplorato nei miei precedenti romanzi l'ipotesi di una nuova religione basata sulla scienza. Avevo omesso però di considerarne un'altra, molto semplice: può darsi benissimo che assisteremo al ritorno di un religione antica.
Alain Finkielkraut: Dio se n'è andato, e farlo tornare non dipende da noi. Io credo che ad essere morta per davvero, in Francia come nel resto del mondo occidentale, sia la fede nella vita eterna. "Dove c'era Dio, oggi c'è la malinconia", diceva Gershom Sholem. Non si può decidere di tornare a credere nella vita eterna: è questo il destino dell'Occidente. Ma dobbiamo riportare le cose alle giuste proporzioni: la storia dell'Occidente non è la storia universale. Io penso che nell'islam, ad esempio, il problema della vita eterna non sia neppure in discussione.
M.H.: Su questo, Alain, sono in disaccordo totale. A sopravvivere sono quelli che credono nella vita eterna. La religione vince sempre alla fine — non foss'altro che per motivi semplicemente e brutalmente demografici.
A.F.: Ma certo — e in questo sta tutta la forza dell'islam: una forza al tempo stesso religiosa e demografica. D'altronde, questi due aspetti sono forse legati tra loro. M.H.: Lo spirito di conquista oggi è dalla parte dell'islam. Ma a mio parere, Boubakeur ( rettore della Grande Moschea di Parigi e capo del Consiglio francese dei musulmani, ndr) ha commesso un errore suggerendo di donare all'islam le chiese cristiane sconsacrate. Per quanto possa non essere più cristiana, tanto da non immaginare neppure di poterlo ridiventare, la gente ne sarebbe sconvolta. Tornare a essere cristiani sarebbe come far ritorno a casa dopo un lungo e penoso vagabondaggio. L'antica casa non dev'essere distrutta.
A.F.: Penso anch'io, caro Michel Houellebecq, che la statistica e la sociologia non possono regnare da sole. Se si parla di identità si è sensibili alla storia, si è eredi di qualcosa. Ai musulmani si chiede dunque, come a tutti, di condividere con noi quest'eredità. E invece il più moderato tra loro propone tranquillamente di trasformare le chiese vuote in moschee gremite. Ne fa una semplice questione aritmetica. Ma si tratta di tutt'altra cosa, come ha scritto Denis Tillinac nel suo manifesto, che ho firmato. Vi si chiede che le chiese, per quanto deserte, rimangano tali. Dà da pensare la strada percorsa da certi intellettuali in quarant'anni: Finkielkraut e Bruckner che firmano una petizione per salvare le chiese di Francia. Che ironia della storia.
A.F.: Ma è molto semplice: quando giro per la Dordogna e visito le chiese di Coly e di Saint-Amand-de-Coly, per esempio, sono assolutamente soggiogato dalla loro bellezza. Non dicono niente di me, ma sono felice e riconoscente di vivere in un Paese dove il cristianesimo ha lasciato delle tracce tanto belle. E mi dico che ho il dovere non certo di ripristinare l'identità cristiana della Francia, ma di vigilare affinché delle tracce così belle rimangano. Non mi verrebbe mai e poi mai in mente di cercare di cancellarle o di annetterle. La Francia non è più un Paese cattolico ma lo è stato, e questo passato rappresenta un dovere, per tutti noi. Non abbiamo il diritto di tirare una riga sulla storia. Una civiltà che si rispetti non vive soltanto al presente.
M.H.: Posso aprire una parentesi economica divertente in un dibattito che diventa molto ideologico? I turisti cinesi non vogliono moschee, non è per questo che vengono. Quindi, se consideriamo che il turismo è uno dei nostri maggiori punti di forza economici, i turisti cinesi potrebbero salvarci?
M.H.: Perché no? Ho già sviluppato questa tesi in La carta e il territorio: è stata accolta da sogghigni e risatine, ma non è falsa. La globalizzazione è irreversibile e la Francia ha dei punti di forza, se punta nella direzione giusta: artigianato di lusso, agricoltura bio, trasformazione di prodotti gastronomici, turismo. Gli altri Paesi europei non possono dire altrettanto e hanno gli stessi problemi nostri ( atonia morale, crollo demografico, ascesa dell'islam), spesso più gravi che da noi.
A.F.: Al tempo stesso è interessante constatare che in tutti questi Paesi, in Francia come altrove, veniamo ricondotti alla nostra identità, anche se non era in programma. Prendiamo l'esempio di Charlie Hebdo, una scuola di pensiero favorevole al cosmopolitismo, sovranamente indifferente alla questione nazionale e perfino ostile a qualsiasi forma di patriottismo. La banda di Charlie era composta di post-sessantottini che folleggiavano nella post-storia, e si sono ritrovati la storia addosso fra capo e collo, brutalmente, sotto le sembianze di un nemico che per lungo tempo avevano rifiutato di concepire anche solo come ipotesi. Il nemico li ha cambiati: contro quella che gli sembrava la vigliaccheria del multiculturalismo, Charb ha difeso una concezione intransigente della laicità, e il libro, ahimè testamentario, di Bernard Maris è un inno alla Francia. Oltre la morte ci pongono questa domanda: chi siamo e a cosa teniamo? La Francia, che guarda rapita i propri valori, prende coscienza che i valori non sono tutto. Riscopre di avere dei costumi, perché questi costumi oggi sono rigettati da una parte della popolazione. E questo, secondo me, va distinto dalla questione religiosa.
M.H.: Non credo che si possa dissociare la questione dei costumi dalla questione religiosa. Io ho letto l'ayatollah Khomeini, ed è interessante. Sarebbe bello avere in Francia persone di un simile rigore, che sottolineino come l'islam parli poco delle questioni metafisiche e molto più dei costumi e dell'organizzazione sociale. È questa modestia metafisica che gli ha consentito di attraversare senza problemi le rivoluzioni scientifiche che si sono succedute, mentre il cattolicesimo andava a sbattere contro Galileo e poi contro Darwin.
Michel Houellebecq pensa che lei, Finkielkraut, se la prenda troppo a cuore per questo Paese...
A.F: Soffro mio malgrado. Non ero certo predestinato a difendere la laicità o l'identità francese. Di fronte al disastro in corso sono stato catturato, mio malgrado, da quello che Simone Weil, ne La prima radice, chiamava il patriottismo di compassione: «La tenerezza verso una cosa bella, preziosa e deperibile».
M.H.: Possiamo scrivere saggi, studiare la storia, ma io credo che le biforcazioni fondamentali rimangono misteriose, le percepiamo senza comprenderle. Abbiamo appena attraversato una di queste biforcazioni. Dopo gli attentati di Charlie Hebdo, nessuno crede più che le cose possano sistemarsi; e ancora peggio, nessuno se lo augura più.
A.F.: Non sono tutti disincantati, ma abbiamo la sensazione che si sia messo in moto un processo, e che sia incontrollabile.
(Traduzione di Fabio Galimberti ed Elisabetta Horvat) da Le Figaro
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