Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/08/2015, a pag. 1-39, con il titolo "Quel giorno di Shabbat in cui rivelai di essere gay", il racconto di Oliver Sacks.
Oliver Sacks
Mia madre e i suoi 17 fratelli e sorelle ricevettero un’educazione ortodossa: in tutte le fotografie, mio nonno porta la kippah, e mi hanno detto che se gli cadeva, di notte, si svegliava. Anche mio padre proveniva da un ambiente ortodosso. Entrambi i miei genitori erano molto consapevoli del Quarto Comandamento («Ricordati del giorno di sabato per santificarlo»), e lo Shabbat (Shabbos, come lo chiamavamo noi, ebrei lituani) era un giorno completamente diverso dal resto della settimana.
Nessun lavoro era permesso, né guidare, né usare il telefono; era proibito accendere una luce o una stufa. Essendo medici, i miei genitori facevano delle eccezioni. Non potevano staccare il telefono o evitare del tutto di guidare; dovevano essere disponibili, se necessario, per vedere i pazienti, o operare, o far nascere dei bambini. Vivevamo in una comunità ebraica abbastanza ortodossa a Cricklewood, nel nord-ovest di Londra — il macellaio, il panettiere, il droghiere, il fruttivendolo, il pescivendolo, tutti chiudevano i loro negozi in tempo per lo Shabbos, e non riaprivano i battenti fino alla domenica mattina.
Tutti loro, e tutti i nostri vicini, pensavamo, celebravano lo Shabbos più o meno come facevamo noi. Recitai la porzione del mio Bar Mitzvah nel 1946 a una sinagoga relativamente piena, con diverse decine di miei parenti, ma quella, per me, fu la fine della pratica ebraica formale. Non rispettai i doveri rituali di un adulto ebreo — pregare ogni giorno, mettendo i Tefillin prima della preghiera mattutina nei giorni feriali — e diventai via via più indifferente alle credenze e alle abitudini dei miei genitori, anche se non vi fu nessun particolare punto di rottura fino ai 18 anni. Fu allora che mio padre, indagando sui miei sentimenti sessuali, mi costrinse ad ammettere che mi piacevano i ragazzi. «Io non ho fatto niente», dissi, «è solo una sensazione — ma non dirlo a mamma, non lo capirebbe».
Lui, invece, glielo disse, e lei, la mattina dopo, scese con una smorfia di orrore sul viso, urlandomi: «Tu sei un abominio. Vorrei che tu non fossi mai nato». (Pensava senza dubbio al versetto del Levitico che dice: «Se un uomo giace con un uomo, come si fa con una donna, ambedue hanno commesso cosa abominevole: saranno sicuramente messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro».) Non si parlò più di questo argomento, ma la durezza delle sue parole mi fece odiare il lato intollerante e crudele della religione. Dopo essermi laureato in medicina, nel 1960, mi allontanai bruscamente dall’Inghilterra, dalla famiglia e dalla comunità che avevo lì, e me ne andai nel Nuovo Mondo, dove non conoscevo nessuno. Trasferitomi a Los Angeles, trovai una sorta di comunità tra i sollevatori di pesi nella Muscle Beach, e con i miei colleghi neurologi residenti presso la Ucla, ma cercavo un legame più profondo — un “significato” — nella mia vita, e fu la sua mancanza, credo, a portarmi a una dipendenza quasi suicida dalle anfetamine negli anni Sessanta.
Cominciai lentamente a riprendermi quando trovai un lavoro significativo a New York, in un ospedale del Bronx per malattie croniche (il Mount Carmel di cui ho scritto in Risvegli ). Ero affascinato dai miei pazienti, mi stavano molto a cuore e sentii che era una specie di missione raccontare le loro storie. Avevo scoperto la mia vocazione, e la seguii con ostinazione, risolutamente, ben poco incoraggiato dai miei colleghi. Quasi inconsciamente, diventai un narratore in un momento in cui la narrativa medica si era quasi estinta. Per molti anni avrei vissuto una vita solitaria, quasi monastica, ma profondamente soddisfacente. Negli anni Novanta, conobbi un cugino mio coetaneo, Robert John Aumann, un uomo di bell’aspetto, con la sua corporatura atletica e robusta e una lunga barba bianca che già a 60 anni lo faceva sembrare un vecchio saggio. È un uomo dalle grandi capacità intellettuali, ma anche di grande calore umano e tenerezza, con una profonda devozione religiosa – “devozione”, infatti, è una delle sue parole preferite. In un’interessante intervista del 2004, Robert John parlava del suo lavoro di una vita nell’ambito della matematica e della teoria dei giochi, ma anche della sua famiglia — di come andasse a sciare e a fare alpinismo con alcuni dei suoi quasi 30 figli e nipoti (li accompagnava sempre un cuoco kosher con le sue pentole) — e dell’importanza dello Shabbat per lui. «L’osservanza dello Shabbat è molto bella», diceva, «ed è impossibile se non si è religiosi».
Nel dicembre del 2005, Robert John ricevette il premio Nobel per i suoi cinquant’anni di lavoro fondamentale nel campo dell’economia. Non fu un ospite facile per il Comitato del Nobel, perché andò a Stoccolma con la sua famiglia, compresi molti di quei figli e nipoti, e tutti dovevano avere piatti kosher, utensili e cibo particolari, e abiti da cerimonia speciali, senza mescolanze di lana e lino proibite dalla Bibbia. In quello stesso mese, mi diagnosticarono un cancro a un occhio, e mentre ero in ospedale per la terapia, il mese successivo, Robert John venne a trovarmi. Mi raccontò un mucchio di storie divertenti sul premio Nobel e sulla cerimonia a Stoccolma, ma ci tenne a dire che, se fosse stato costretto a recarsi a Stoccolma di sabato, avrebbe rifiutato il premio.
Nel 1955, avevo 22 anni, andai in Israele per diversi mesi a lavorare in un kibbutz, e anche se mi piacque, decisi che non ci sarei tornato. Benché molti dei miei cugini si fossero trasferiti lì, la politica del Medio Oriente mi disturbava, e sospettavo che mi sarei sentito fuori luogo in una società profondamente religiosa. Nella primavera del 2014, avendo saputo che mia cugina Marjorie era vicina alla morte, le telefonai a Gerusalemme per dirle addio. La sua voce era sorprendentemente forte e risonante, con un accento molto simile a quello di mia madre. «Non ho intenzione di morire adesso», disse. «Festeggio i miei cent’anni il 18 giugno. Verrai?». Risposi: «Sì, certo!».
Fu puramente una visita di famiglia. Festeggiai i cent’anni di Marjorie con lei e la famiglia allargata. Vidi altri due cugini a me cari nei miei giorni londinesi, innumerevoli cugini di secondo grado di cui non mi ricordavo più e, naturalmente, Robert John. Mi sentii abbracciato dalla mia famiglia in un modo che non avevo più sperimentato dopo l’infanzia. Avevo un po’ paura nel visitare la mia famiglia ortodossa con il mio compagno, Billy — le parole di mia madre riecheggiavano ancora nella mia mente — ma anche Billy fu accolto calorosamente. Quanto fosse profondamente cambiato l’atteggiamento, anche tra gli ortodossi, fu definitivamente chiarito da Robert John quando invitò Billy e me a unirci a lui e alla sua famiglia per il pasto di apertura dello Shabbat.
La pace dello Shabbat, di un mondo che si ferma, in un tempo fuori dal tempo, era palpabile, pervadeva tutto, e mi ritrovai immerso nella malinconia, qualcosa di simile alla nostalgia, a chiedermi: e se A e B e C fossero stati diversi? Che persona sarei stata? Che vita avrei potuto vivere? Nel dicembre del 2014, ho completato il mio libro di memorie, On the Move, e dato il manoscritto al mio editore, senza immaginare che pochi giorni dopo avrei saputo di avere un cancro metastatico, proveniente dal melanoma nel mio occhio di nove anni prima. Sono felice di aver potuto completare il mio libro di memorie senza saperlo, e di essere stato in grado, per la prima volta nella mia vita, di fare una dichiarazione completa e franca sulla mia sessualità, affrontando il mondo apertamente, senza più racchiudere dentro di me segreti colpevoli.
A febbraio, ho sentito che dovevo essere altrettanto sincero riguardo al mio tumore. Ero in ospedale quando è stato pubblicato sul New York Times il mio articolo su questo tema. E ora, debole, col fiato corto e i muscoli una volta sodi sciolti dal cancro, trovo che i miei pensieri, non sulle cose soprannaturale o spirituali, ma su cosa si intende per vivere una vita buona e utile — hanno ptovocato un senso di pace dentro di me. Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno di riposo, il settimo giorno della settimana, e forse il settimo giorno della nostra vita, quando possiamo sentire di aver fatto il nostro lavoro, e di potere, in buona coscienza, riposare.
(Traduzione di Luis E. Moriones)
Pubblicato in anteprima sul New York Times
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